< Torna all'archivio

“La gnosi dei perfetti nell’arte e nell’estetica” – recensioni

di Recensori VariPubblicato il

copertina del libro "la gnosi dei perfetti nell'arte e nell'estetica"Tecnica e trascendenza

Ho letto e riletto il monumentale lavoro di don Ennio Innocenti, La gnosi dei perfetti, con reverenza e stupore. Reverenza poiché un simile approccio a materie artistiche, da una prospettiva integralmente religiosa, suscita rispetto, nella sua, oserei dire, unicità. Stupore perché l’argomento è sviscerato con una profondità, con una sistematica analisi dalla logica trascinante ed irresistibile, nella convincente esattezza delle conclusioni; il tutto sotto la luce di un amore per l’arte, per l’estetica in generale, di una mente predestinata. Una simile materia, in mano ai soliti critici, agli analisti ed agli storiografi da salotto diviene una fredda, talvolta cinica tratta- zione, come al solito di stampo neo illuminista. La trattazione di don Ennio, invece, risplende dell’entusiasmo di un appassionato cultore, che considera ogni manifestazione artistica un atto puramente spirituale, una mirabile sintesi che trasfigura i dati tecnici in un unico inno di bellezza. Intuizione, idea, volontà dovrebbero essere fusi nel vero artista in un progetto superiore, di vasto respiro. Nelle riflessioni filosofiche sull’arte l’Autore identifica giustamente tre fattori unificanti del fenomeno: l’opera, l’artista, l’osservatore, ovvero il fruitore del lavoro artistico, in termini moderni. Si sottolinea che tutto sommato l’artista creatore lavora in una temperie soggettiva, un ricco mondo interiore in mirabile equilibrio tra  gli oscuri recessi della psiche, la sensibilità che fa da ponte alla tradizione culturale, ed il rapporto col divino, la visione del mondo e della vita. In questo paragrafo è molto bella ed illuminante la visione unitaria tra opera, creatore ed osservatore, radicati nella materia, il Logos del Supremo Artista che è il Creatore. Un vasto excursus storico, dall’arte paleocristiana ai giorni nostri, vuole dimostrare il progressivo distacco dal puro mondo spirituale dei primordi. È vero che i primi artisti cristiani erano influenzati da civiltà precedenti, in particolare dall’arte greca, modello di formale equilibrio, di serena e consapevole compostezza, alla quale vollero sovrapporre un infinito entusiasmo per i nuovi orizzonti dello spirito che stavano affrontando. Una riflessione: l’arte classica non è a sua volta la decantazione di un mondo trascendente, dalle lontane origini sacrali, non importa se non ancora toccate dalla Rivelazione?

Simonide di Ceo scrisse che la pittura era una poesia muta, e la poesia una pittura parlante. Estendendo la similitudine alla musica, emanazione diret- ta della poesia e dell’architettura (arte del tempo e contemporaneamente dello spazio) arriviamo alla musica medievale, al canto gregoriano, dove gli anonimi creatori di questi canti meravigliosi si confondono in una mi- rabile coscienza collettiva, su testi dettati dalla voce degli apostoli e dei profeti, all’ombra delle architetture, possenti e perfette delle cattedrali.

Questa visione unitaria dell’arte dei suoni doveva fatalmente incrinarsi  nel tardo medioevo, come rileva giustamente l’Autore, poiché gli artisti gradualmente restringono il proprio epos all’umano, al secolare, al superficiale, sotto l’influsso, vorrei aggiungere, di un deteriore spirito volgare, popolaresco, rinunciatario a nobili ed elevati sentimenti. Naturalmente questo restringersi prospettico della visione estetica non ha avuto un rettilineo percorso nei secoli successivi, altrimenti l’arte vera si sarebbe estinta! Non possiamo dimenticare il mirabile fenomeno del polifonismo fiammingo, dalle sonorità policrome e fiammeggianti come vetrate di chiesa. Un’arte che nasce da un puro, astratto senso religioso (per astratto si intende un approccio assolutamente puro), che investe tutta l’essenza dell’atto creativo. palestrina e Orlando di Lasso codificano in musica una suprema catarsi religiosa, come farà molto più tardi J. S. Bach. Giustissima l’osservazione che con la prospettiva trascendentalistica viene meno l’oggettività spirituale: l’artista perde il contatto con la realtà immanente, diviene egocentrico, assoluto aedo del proprio ego, in un universo estetico fuorviante, lontano dalle istanze spirituali che ne dovrebbero rappresentare le basi; molto spesso contraddittorio e negatore di se stesso. La svolta, come rileva giustamente l’Autore, avviene nel primo Ottocento, nel clima generale di un mutamento epocale, una trasformazione dei co- stumi e delle ragioni di vita. L’artista si sentiva moderno e voleva essere moderno: la famosa Zukunftmusik (la musica del futuro) teorizzata prima da Franz Liszt, che peraltro esibiva una paradossale duplice veste di uomo di mondo e di ecclesiastico operante (era chierico della cattedrale di Albano) e poi da Richard Wagner. Il tutto doveva poi arenarsi nelle varie correnti futuriste per arrivare ad uno sperimentalismo, talvolta misticheggiante, che di mistico aveva soltanto l’atteggiamento orientale alla moda, spesso truffaldino; uno psicologismo astratto e spurio che si trascina ancora ai nostri giorni, per la gioia dei progressisti e l’indifferenza del pubblico. Fenomeno ancora più grave la odierna forza della comunicazione, agenzie artistiche, editorie, mezzi audiovisivi, internet… Tutte associate per propagandare e diffondere in maniera scientifica un’arte perversa e forse inutile nella sua disumanità.

In una materia sconfinata, come l’estetica dell’arte, don Ennio Innocenti, con mirabile senso dell’ordine e dell’analisi sistematica propone un decalogo per l’artista, non l’artista incorniciato dal lauro del successo, spesso decretato da conventicole interessate, ma il vero, autentico e semplice artista, che opera con sentire sincero nel seno di una collettività, sotto la luce della conoscenza e della Rivelazione. Decalogo sotto forma di preziose osservazioni:

  • La rappresentazione estetica può definirsi artistica quando la sua espressività va oltre al soggettivo… e suscita ammirazione. Vorrei aggiungere: quando questa ammirazione travalica il contingente e rimane ferma, immutabile anche nei tempi futuri. L’arte di Claudio Monteverdi!
  • Se l’arte riesce ad esprimere una sintesi tra finito ed infinito (quasi un’utopia) si può definire religiosa. È l’arte di J.S. Bach, di Haendel, di Cherubini, del Mozart sacro… e vorrei aggiungere di Cesar Franck ed Anton Bruckner nelle grandi Messe.
  • l’arte antica, l’età dell’oro della musica, è religiosa per la visione sa- crale della vita. penso ad un’utopia: l’esistenza dovrebbe essere una continua celebrazione
  • La visione dell’arte classica delle antiche civiltà, come già accennato, da parte dei primi cristiani era sottolineata dalla trascendenza, dall’accettazione della bellezza, e vorrei aggiungere, al vaglio di una valutazione oggettiva.
  • Mille anni di oggettivo equilibrio. Le nuove tecniche sopraggiunte, creative ed esecutive, aderenti a diverse realtà, dovrebbero orientare per analogia i nuovi artisti (ma non restringere la loro libertà).
  • Valutazione del distacco dalla visione trascendente unitaria. Distacco inevitabile a mio avviso, che porta con sé una visione distorta della Tradizione, un soggettivismo critico, un generico panteismo.
  • L’arte musicale venne inquinata da uno spiccato materialismo sonoro, un simbolismo spesso gratuito, legato ad un sentire personale, acritico e svincolato dall’humus collettivo (vorrei citare Hector Berlioz, in campo strumentale, e la produzione operistica del Sette-Ottocento, tutto sommato – mi perdoni il pubblico di appassionati – una autentica mostruosità morale ed estetica, e non soltanto per la musica ed il libretto solitamente di bassa lega, ma per gli allestimenti, le messe in scena provocatorie e fuorvianti).
  • Fattore primario, di importanza incalcolabile, sottolinea don Ennio Innocenti, la secolarizzazione dei beni ecclesiastici. Cessò feconda committenza della Chiesa, un rapporto privilegiato con l’arte che durava da un millennio, fenomeno importante, che portò ad una deviazione culturale vistosa dei compositori, divenuti agnostici, scettici ed improvvisamente anticlericali.
  • L’esoterismo, religione del mistero, destinato agli iniziati, che esclude a priori un sentire comune tra l’arte e il pubblico. (L’arte per l’arte è una bella utopia!).
  • La frattura nel ’900 diviene completa, per le correnti sovversive che fanno il loro ingresso sulla scena mondiale. Solo un possente movimento spirituale poteva opporre al materialismo una convincente alternativa, secondo la mia opinione… ma mancò un autentico leader, un Gandhi del pensiero e dell’azione!

Il pubblico è fermamente refrattario ad un’arte di estrazione ideologica, ma viene purtroppo irretito da forme musicali facili e prosaiche, dove il sentire comune viene avvilito da contenuti assolutamente materiali, umilianti nella esteriorità e nel basso livello culturale…. È il caso di dire: dalla padella alla brace!

Questa purtroppo è la situazione attuale, così radicata nei meandri contrabbandati della cultura: ma è l’unica realtà operante, oggi? Naturalmente una natura immaginativa e combattiva come don Ennio Innocenti propone un antidoto: una rilettura ed una rimeditazione dei punti di frattura nel lungo percorso storico, a cominciare da Immanuel Kant… e ribadisce un concetto fermo: che l’artista serio e responsabile debba riconoscere umilmente un ordine superiore dell’universo, ridimensionare l’ego, per portarlo più in alto, lontano dalla materia, verso la Verità, la Bontà e la Bellezza, splendida trilogia nella quale l’uomo si riconosce emanazione divina.

 

Musica di Chiesa e musica d’arte

Uno schema semplice: dopo il primo millennio la monodia diviene, per un processo semplice ed inevitabile polifonia. Aggiungo: sono le sperimentazioni sulle estensioni vocali ed anche certe caratteristiche dei testi che portano a nuovi risultati. Nel ’400 dopo un lungo periodo di stabilità espressiva le cattedrali sonore dei Fiamminghi insidiarono la chiarezza della parola. Il sommo pierluigi da palestrina ristabilì con acume e profondo magistero tecnico l’equilibrio ideale tra l’espressione musicale, originale ed intensa, e il testo, che dovrebbe sempre orientare la sensibilità degli ascoltatori (almeno nei paesi latini). Così nell’Oratorio e nel Teatro… l’ago della bilancia oscilla tra alchimie sonore sofisticate dello strumentale e la semplicità e chiarezza testuale, in una sorta di ricorsi storici che si perpetuano e si perpetueranno, ad infinitum!

Un quesito interessante: per andare incontro alla naturale predisposizione cantabile del popolo, non si corse il rischio di emarginare una evoluta cultura musicale, frutto di sedimentazioni e di acquisizioni secolari? Così purtroppo si è attenuato l’uso del canto gregoriano, devitalizzato e confinato ad una curiosità storica; si è passati dal Corale luterano (mi si consenta affermare, grande veicolo di musicalità per i fedeli, musicalità che da istintiva diviene arte), ai gruppi giovanili con chitarre, che contrabbandano uno svilente e modestissimo materiale sonoro, con strutture armoniche desunte dalla musica leggera… per me, quasi un sacrilegio! Ricordo che anni fa mi si impedì di eseguire in chiesa un bel Adagio per Archi di Sibelius, che per quanto laico dichiarato lascia passare nella sua musica un afflato mistico sincero ed ispirato, che lo cataloga tra i veri autentici musicisti del primo Novecento. La sua posizione “reazionaria” nei confronti delle nuove tendenze (che lo porteranno a lasciare la composizione già dagli anni venti e restare spettatore silente nel corso della sua lunga vita – morì nel 1957) lo isolò dal contesto operante della musica: contesto vivo per gli specialisti e gli intellettualoidi, per le confraternite e le innu- merevoli mafie culturali che cominciavano ad imperversare in quel periodo. Ma torniamo al topos di questa trattazione. per dipanare il complesso groviglio estetico, afferma l’Autore, occorre affrontare il problema alla radice: il problema del sopravvento della cultura (spesso e volentieri la definirei pseudo-cultura) che nell’epoca moderna ha avuto un’importanza e un peso soffocante sul Trascendente. Troppo cervello e poco cuore, diceva il mio compianto maestro di Composizione Armando Renzi, grande ed autentico musicista, Organista e Compositore, Direttore per molti anni della Cappella Giulia a Roma. Era un profondo ed appassionato cultore della scuola polifonica romana: nel repertorio prediligeva Ravel e Stravinskij.

Stravinskij, come rileva don Ennio, esigeva dal compositore un’estetica. L’ estetica, parola magica che dovrebbe rappresentare la bussola d’orientamento di ogni artista che voglia trasmettere un messaggio. Estetiche in- certe o intrinsecamente perverse portarono, portano e porteranno l’arte  dei suoni verso discutibili scelte…. da rilevare, scelte che quasi sempre coincidono col netto rifiuto degli ascoltatori! Bellissimo il tratto del capitolo che sottolinea la Tradizione che connette il suono con la creazione (aggiungerei: col respiro) dell’universo: Dio disse e tutto fu. Luce, energia, armonia di sé, i cieli cantano questa armonia. Splendida ed immaginifica l’analogia tra Cristo in veste di Orfeo che riconcilia tutte le creature del cielo e della terra. Arriviamo così alle profonde visioni di S. Agostino e Severino Boezio sulla spiritualità di far musica nella ricerca dell’unità armonica universale. L’osservazione che contrappone il popolo  dei fedeli (di non profonda cultura) con i monaci (acculturati per vocazione e per scelta) porta alla conclusione che certe musiche suscitavano le emozioni popolari, dalle quali rifuggivano i religiosi e viceversa. Altra dicotomia interessante: l’arte fiamminga, polifonica all’estremo, incline ad un colto estetismo e l’arte italiana, che con la purificazione palestriniana, l’Oratorio e più tardi l’Opera teatrale, preservava il “recitar cantando” come un’emozione facile e popolare, mantenendo un testo di significazione elevata.

Innocenti giustamente fa partire da Mozart i semi della modernità. Giustificabile la curiosità intellettuale del nuovo… ma il soggettivismo smisurato, quando sconfina con l’edonismo fine a sé stesso, condanna poeti, filosofi e musicisti a pericolose devianze. Come se il Romanticismo, nella sua indagine del rapporto tra l’ io e l’assoluto, in sé profonda e costruttiva, affondasse gli artigli nei recessi profondi dell’ego dell’artista, portandolo a pericolosi squilibri. Si parla del poeta Holderlin, del suicida Von Kleist, di Schumann che visse ossessionato dalla paura della follia, e finì pazzo per davvero, dopo un tentativo di suicidio. Era ossessionato da suoni misteriosi, squilli laceranti di trombe, e visioni di schiere angeliche, abbaglianti da perdere la vista. Questi artisti romantici vivevano un mondo paradossale, sul filo della ragione. Anche il cattolicissimo Anton Bruckner cadde vittima di una psicosi grave, che per un breve periodo gli oscurò la mente (credente integrale, si salvò per la forte e radicata fibra religiosa, e per l’aiuto generoso del Vescovo Rudiger, suo ammiratore ed amico, che volle assisterlo in prima persona). Passò dalla composizione  di musica sacra (messe e mottetti) alle monumentali nove sinfonie: l’ultima, incompiuta, è dedicata ad maiorem Dei gloriam (nel 2011 l’Orchestra Filarmonica di Berlino eseguiva la mia versione completata di questa straordinaria Sinfonia, testamento spirituale del musicista). Assieme a Cesar Franck, don Ennio lo annovera come un autentico musicista cristiano. Richard Wagner è una figura più controversa. Come scrive Innocenti “diffonde un’ebbrezza pseudo-mistica, una sorta di Nirvana (“il fumo dell’oppio suonato e cantato”, diceva il suo acerrimo nemico, il musicologo Eduard Hanslick), un annientamento, un annullamento nell’universo. Se può esser vero per il Tristan und Isolde e larghi tratti della Tetralogia, forse lo è meno per il Tannhäuser ed il Parsifal, per non menzionare la bella composizione giovanile “La cena degli Apostoli” per Coro ed Orchestra, che sembra celare la fiamma nascosta di una religiosità vera, non ostentata. Non per nulla l’iconoclasta Nietzsche voltò le spalle al vecchio amico, lo attaccò con astiosi libelli, indispettito per la svolta “cristiana” della sua ultima Opera. Nietzsche, altro mostro sacro della cultura trasgressiva (la cultura sinistroide lo ha letteralmente scippato alla destra!), finito in manicomio. Come l’ultra romantico Hugo Wolf, il vero erede di Schubert, un mago della parola musicata. Anche certe iscrizioni deliranti apparse sul manoscritto della Decima Sinfonia incompiuta (della quale una decina d’anni fa ho voluto proporre una ragionevole ricostruzione) gettano dubbi sulla sua salute mentale. È l’ipertrofia dell’ego, portato all’ennesima potenza contro un universo che si percepisce ostile… Sottile l’indagine di don Ennio su questo controverso compositore: “la seduzione di Mahler consiste in una girandola di invenzioni…”. Giustissimo! Seduzione, come conseguenza di un fascino dalle radici antiartistiche, nel voluto disordine, l’eterogeneità del materiale, l’ironia a buon mercato (giusta l’etimologia: finzione). Vorrei sottolineare la mancanza  di un centro focale, che impedisce il delinearsi di una forma riconoscibile: senza forma, non c’è stile – senza stile non c’è arte. Non posso ricordare chi abbia pronunciato questo assioma, che tuttavia è assolutamente appropriato, per ieri e per oggi. Al presente l’encefalogramma musicale è quasi piatto, né si scorge un segnale di mutamento di rotta, per invertire questa nichilistica tendenza al negativo.

Le vie della risalita. Così intitola l’autore un altro paragrafo interessante: tornare alla ragione… ripensamento. L’artista dovrebbe ripudiare  le proprie spurie certezze, ma non negarsi acriticamente alla simbolo gia, alla magia della parola, sempre mirabile ponte verso il Divino, che annulla ogni edonismo per un’arte superiore. La musica deve giustamente ritrovare le vie della mistica autentica, la gnosi pura. Hanno tentato questa ed altre strade tre grandi musicisti, tre protagonisti che han no determinato la musica del Novecento e che probabilmente hanno ipotecato  il futuro.

 

Claude Debussy

 Definito giustamente un musicista di rottura. Già da giovanissimo faceva disperare i suoi maestri di composizione per il trattamento eccentrico degli accordi. La sua sensibilità raffinata entrava in collisione col greve   e paludato mondo accademico da una parte, dall’altra col wagnerismo rumoroso e trionfante. Il tutto condito da un positivismo arrabbiato, in inevitabile simbiosi le idee più oltranziste che cominciavano apertamente a circolare dopo il manifesto dei comunisti del ’48. Naturalmente quello che si può scorgere nel musicista francese di scapigliato ed irrazionale, diveniva aperta e sin troppo provocatoria trasgressione. Le sue ricerche sulle scale a toni interi o le diverse ingegnose pentafonie risentono in verità di un orientalismo alla moda (cfr. Iris di Mascagni del  1898 e Madama Butterfly di Puccini del 1904) in sintonia, come osser va l’Autore, alle tendenze sensuali (con le varie perversioni, vorrei aggiungere) nutrite da letterati simbolisti, da teatranti eccentrici, intellettuali alla moda: tutto sommato un mondo decadente che non giustifica    le ricerche di un rinnovamento. “Wagner fu un bellissimo tramonto che  è stato preso per un’aurora” afferma Debussy… don Ennio aggiunge argutamente: e lui? Si potrebbe rispondere: “Debussy fu un’aurora nella livida luce di un territorio lunare”. Non ha avuto eredi; Ravel nasce dall’impressionismo ma segue una traiettoria diversa. Da lui non è scaturito il mondo nuovo che i suoi turiferari sognavano. L’unico brano di matrice pseudo religiosa, come Il martirio di S. Sebastiano sul dissacrante testo di Gabriele D’Annunzio urtò contro la disapprovazione dell’Arcivescovo di Parigi, ed ebbe una tiepida ricezione da parte del poeta, che era un notevole intenditore di musica e sicuramente la giudicò troppo manierata e cerebrale.

Arnold Schoenberg

 Questo ebreo viennese, apostolo della musica d’avanguardia, partì tutto sommato da posizioni conservatrici, come osserva l’Autore. Mentre Richard Strauss terrorizzava i salotti borghesi con truculenti drammi come Salomè ed Elektra, messi in musica con una virulenza che vorrei definire satanica, Schoenberg civettava con l’accademismo brahmsiano (Brahms  il progressivo. Celebre saggio per una riabilitazione in chiave moderna), con Wagner e Mahler. Sono noti i legami non soltanto culturali con Mahler… ma le dispute tra i due erano all’ordine del giorno. La dialettica cabalistica, come la definisce don Ennio, portava il musicista a progetti paradossali: teorizzava infatti una Klangfarbenmelodie (melodia di colori,  di timbri) che Mahler rifiutava come irrealizzabile e velleitaria. Del collega diceva: “la sua musica non la capisco.. ma sono vecchio (aveva 40 anni) e può darsi che non abbia l’orecchio buono per percepirla!”. La modestia non è forse prerogativa dell’uomo di valore?

Innocenti rileva giustamente che gli ebrei hanno avuto un grande peso culturale nell’area tedesca, principalmente a Vienna, città cosmopolita, ricca di fermenti, ma già incrinata dalla decadenza. (Non aveva forse predetto Nietzsche che questo secolo avrebbe rovesciato il tavolo dei valori dell’Ottocento?). Il colto, cabalistico Schoenberg getta sulla bilancia delle sue teorie musicali il peso della simbologia numerica, su testi esoterici, magici e teosofici. Viene  messo in rilievo in questo paragrafo l’influsso  di Schopenauer e del suo epigono degenere Nietszche (curiosamente non si parla mai della musica di questo filosofo, che non è per nulla dilettantesca) sui musicisti dell’epoca. Altri fattori contingenti vengono sottolineati, il gusto per gli enormi spiegamenti orchestrali, un gigantismo per altro accolto da Schoenberg nei Gurrelieder e nel Pélleas und Mélisande, ma ripudiato nelle cameristiche opere successive.

Ciò che ha reso celebre il musicista è naturalmente il metodo di composizione seriale (la dodecafonia) che affranca tutti i 12 suoni della scala cromatica parificandoli, quasi fossero cittadini anarchici di uno stato anonimo. (Devo far notare che il musicista austriaco Joseph Hauer anticipò Schoenberg non solo nella dottrina della serialità, ma anche sulla melodia dei timbri e dei colori. Ma viene stranamente ignorato dalla musicologia… forse perché non è ebreo?). Schoenberg si getta a corpo morto nel sistema, per dar vita ad una serie di brani estremamente arditi, dove i rapporti interni tra le componenti (la Trinità della musica: Melodia, Armonia e Ritmo) vengono praticamente annullati. A proposito del dissacrante Pierrot Lunaire, che ho diretto qualche volta, e mi ha sempre ripugnato per la disinvolta dissacrazione del testo… leggo alla fine del paragrafo una dichiarazione del musicista: “in nessun periodo della mia vita sono stato antireligioso…” e quando si rivolge all’amico Kandinskij: “la religione è stata in questi anni il mio solo sostegno, per la prima volta lo confesso…” dobbiamo necessariamente credergli. Efficace nel tratteggio del musicista l’accostamento hegeliano tra Prometeo, Cristo, l’eterno femminino (Goethe: das Ewig Weibliche! Avrebbe mai immaginato l’apollineo poeta di trovarsi un secolo dopo in simile compagnia?). Un’arte astratta, come astratta è la vita interiore del musicista. Un ordine migliore. Quale? Si domanda don Ennio Innocenti… Si spegne mentre lavora ad un salmo. prega… Chi? Domande angosciose come la sua musica. Non c’è risposta.

 

Igor Stravinskij

Dopo le nebbie culturali viennesi un po’ di luce e di dinamismo ottimista. Stravinskij, russo di nascita, francese d’adozione, poliglotta, colto, cosmopolita. È vero che il musicista recepì il fuoco delle musiche popolari, il sentimentalismo romantico dell’epoca e le ricerche impressioniste, ma vorrei aggiungere a questi elementi la elementarità plastica di Musorgskij e il colorismo geniale di Rimskij Korsakov. Il genio, come dicevo, è sempre allenato alla scuola della modestia. In una intervista, provocatoriamente interrogato su chi fosse il più grande musicista del secolo rispose: “naturalmente Debussy!”. A mio avviso la fiaccola della rigenerazione è passata direttamente nelle mani del giovane russo, che ammirava il musicista francese… che non ricambiava affatto. Una volta, indispettito per qualche trovata musicale non ortodossa esclamò: “Igor è un bravo musicista, ma mette le dita nel naso alla musica!”.

Scrive giustamente Innocenti: Ecco la strada che dal soggettivismo romantico porta all’oggettivismo. Neo classico? Direi piuttosto razionale… cattolico. Stravinskij ci parla del suo distacco dal romanticismo: “questo implica l’estasi, lo smarrimento di noi stessi… l’arte esige una coscienza vigile…. Sarebbe ora di finirla una volta per tutte con questa inetta e sacrilega concezione dell’arte come religione e del teatro come tempio!”. preziosa testimonianza questa, che mette a fuoco una delle problematiche che affliggono oggi l’arte. Elogio della chiarezza e della lucidità. Adorno, presuntuoso intellettuale ebreo, ha consacrato diversi scritti alla distruzione del mito Stravinskij, senza altro risultato di radicalizzare gli schieramenti. Si sa che Schoenberg si riferiva spregiativamente al collega col nomignolo di Moderniskij… ma la collana di capolavori del musicista russo, che vanno dall’Uccello di fuoco al lavoro sacro Abraham et Isaac rimane un diadema nel panorama del Novecento.

Scrive Stravinskij:

“Parlare di musica è una faccenda rischiosa e comporta delle responsabilità”. Bellissima affermazione! Don Ennio Innocenti, nella sua trattazione accurata, profonda ed appassionata, non tratta l’arte dei suoni come un arti- gianato di lusso, un’attività edonistica e commerciale, ma come l’arte bella di Boezio, l’armonia delle sfere, in una potente visione universale e Teocratica, seducente anche per il lettore laico. Nessuno può rimanere indifferente di fronte a questa splendida trattazione dottrinaria. In questo caso la faccenda rischiosa diviene un puro atto di fede, una fede al calor bianco. possa questo entusiasmo contagiare artisti validi, per un ripensamento, un rigenerazione dell’arte dei suoni, che possa commuovere e convertire.

Nicola Hansalik Samale

******************************************************************************************************************

Il confronto tra teatro materialista e teatro cristiano

Don Ennio Innocenti, lucido e appassionato creatore di questa straordinaria ricerca sulla gnosi nell’arte e nell’estetica, ha scritto nell’introduzione al capitolo sul teatro di Pietro De Marco, che in tutti o quasi tutti gli autori della drammaturgia del ’900 si rivela una negazione della realtà, a cui  si disconosce ogni positività: rifiuto, dunque, del mondo, un rifiuto simile a quello degli antichi gnostici, anche se aggiornato, moderno.

Le eccezioni sono poche, anche se di grande qualità. Come il teatro di Eliot – “Assassinio nella Cattedrale” continua ad essere non solo un capolavoro, ma un testo molto rappresentato, mentre gli altri eccellenti testi di Eliot sono stati un po’ dimenticati anche in Inghilterra – e di Claudel. In Italia, Diego Fabbri ha scritto testi cristiani apprezzati dal pubblico di tutto il mondo: “Processo a Gesù” – di cui ho curato un’edizione popolare molto letta – è stato un successo mondiale ed è stato rappresentato con successo perfino in Giappone. Ma dopo la sua morte è quasi scomparso dai palcoscenici. E che dire di quel capolavoro che è “L’avventura di un povero cristiano” di Ignazio Silone, assente da moltissimi anni dalla scena?

Il marxismo prima e il nichilismo di oggi, dominanti nella nostra scena, hanno emarginato tutti i testi che non sono “politicamente corretti”. Ma è anche vero, come ha sottolineato Don Ennio, che nel dopoguerra, con la vittoria della DC, che della cultura non si è mai occupata, “il teatro cristiano è uscito sconfitto dal confronto annunciato da Copeau tra teatro materialista e teatro cristiano”. Ha vinto il teatro materialista.

Ricordo sempre quando Orazio Costa rilanciò, agli inizi degli anni Settanta, il teatro di ispirazione cristiana con il Teatro Romeo e i poteri pubblici fecero di tutto per contrastarlo e per farlo morire, come poi avvenne.

Anni prima, dal 1948 al 1953, il piccolo Teatro di Roma, fondato da Orazio Costa, ebbe lo stesso destino, mentre il marxisteggiante piccolo di Milano, che aveva come nume tutelare Bertolt Brecht – autore stalinista, come lo definisce Don Ennio – potè contare su miliardi di sovvenzioni statali.

Nell’introduzione, Don Ennio ha scritto con lucidità che “nel teatro è stata abbandonata tutta la complessità della rappresentazione scenica, per proporre il corpo nella sua nudità, nella sua materialità, al fine di emozionare lo spettatore e di suggerirgli un indirizzo ideologico (per esempio, d’infrazione d’ogni legge, oppure di superamento del genere sessuale nell’andro- ginia)”. Come non essere d’accordo, quando è stato da molti teorizzato il teatro del corpo, dimenticando che prima di tutto il teatro è parola?

Pietro De Marco, in un saggio che vola alto, sottolinea, fin dalle prime pagine del suo ampio e articolato intervento, il nesso tra avanguardie artistiche e gnosi, aggiungendo: “E se i movimenti artistici e letterari del secolo non hanno la forza filosofica o emozionale delle gnosi antiche, e sembrano inconfrontabili, le relative epoche, la matura età imperiale e il Novecento europeo hanno una sicura somiglianza”.

“Le avanguardie”, sottolinea De Marco, “coltivano una massima ambizione: innestare le pratiche linguisticamente demolitive della gnosi artistica nelle grandi rivoluzioni in corso, in ambito russo, o agitarle in parallelo, in attesa della rivoluzione, nel resto dell’Europa. La frattura consumata dall’avanguardia sarà gnostica nella volontà di costituirsi in una pratica o costellazione di pratiche di dislocazione dei linguaggi (in effetti di colori, suoni e alfabeti) e di eversione di senso”.

Il teatro ha un ruolo importante nelle avanguardie e in varie direzioni. La prima, ad esempio, è la sottolineatura dell’autonomia della messinscena rispetto al testo. In un periodico tedesco del 1907, intitolato “Die Schaubuhne” (“La scena”) è scritto testualmente: “Non è l’attore a servire l’autore drammatico, ma l’autore a servire l’attore”. De Marco, poi, cita la sperimentazione di atti surrealisti, partendo da Henry Behar, storico del teatro dadrista e surrealista, che ha ignorato completamente il ruolo del teatro futurista, che li ha influenzati profondamente.

Behar scrive che “il mondo è uno spettacolo all’interno del quale noi stessi siamo spettacolo e che in fondo il miglior teatro per l’uomo è ancora lui solo” e De Marco aggiunge significativamente: “così ignora o annulla semplicemente tragedia, commedia e forse ogni poietikà”.

Quest’uomo “miglior teatro a sé”, è poi lo gnostico “libero” senza mondo, ovvero l’io della coazione a riprogettare il mondo (Voegelin) e le parole per dirlo, come se mondo e linguaggio non esistessero.

È quest’ultima una caratteristica di tutte le avanguardie, soprattutto del dadaismo e del surrealismo, ma anche delle neo-avanguardie. Ed ha ragione De Marco quando sottolinea che “nei percorsi gnostici di disaliena- zione, alcune cerchie perseguiranno l’orgiastico, altre l’illuminismo e l’anticipazione mimetica di nuovi ordinamenti razionali dell’esperienza, oltre la messa in scena della verità ultima, rivelata nella spoliazione e nello smontaggio”.

La verità è che l’avanguardia ha opposto alla ottocentesca mimemis mediante l’attore, una mimemis mediante la macchina, l’inanimato che vive come forma (astratta o estraniata) e movimento, infine mediante il corpo reificato dell’attore. Come non pensare a Jarry per arrivare a Gordan Craig e a Majerchold, per citare solo alcuni dei nomi più significativi?

Il lungo capitolo dedicato al teatro è talmente ricco di riferimenti, citazione e suggestioni, che qui è solo possibile fermarsi su alcuni di essi.

Se ci fermiamo ai surrealisti, come non condividere l’affermazione di Jules Monnerot che “i surrealisti stanno ai rivoluzionari sociali degli anni ’30-’40, un po’ come gli gnostici stanno al Cristianesimo. Come gli gnostici erano sedotti da Cristo e si dichiaravano spesso cristiani, così i surrealisti sono sedotti dalla Rivoluzione. Ma come gli gnostici erano comunque formati alla filosofia greca, alla cultura delle élites, così i poeti surrealisti hanno radici nella linea elitaria di Maurice Scéve e Nerval, di Baudelaire e Mallarmé. Come i cristiani non potevano riconoscersi nelle elaborazioni gnostiche della loro fede, così i comunisti non possono riconoscersi nella “rivoluzione surrealista”. Ma qui siamo al paradosso, se pensiamo al comunismo dichiarato e sostenuto da Aragon e da Breton. La storia del movimento surrealista è una storia di espulsioni di chi non accettava i diktat di Aragon, Breton, Eluard e Péret, i commissari ideologici del surrealismo con il loro comunismo stalinista. Nel 1924 espulsero Roger Vitroc, il più importante drammaturgo delle avanguardie storiche. Ma nel 1926 fecero lo stesso con Antonin Artaud, il più geniale teorico di un nuovo teatro. Il documento di espulsione, firmato da Aragon, Breton, Eluard, Péret e Unik, rivela lo stalinismo di questi personaggi, che attaccavano non solo una figura della statura di Artaud, ma anche un uomo minato da una gravissima malattia: “Da molto tempo volevamo farlo tacere, persuasi come eravamo che fosse animato da qualcosa di bestiale. Artaud voleva considerare la rivoluzione come una metamorfosi delle condizioni interiori dell’anima, il che è tipico dei menomati mentali, degli impotenti e dei vigliacchi. Sempre, in qualunque ramo, la sua attività è stata solo una concessione al nulla. per anni l’abbiamo visto vivere sul semplice enunciato di alcuni termini, ai quali era incapace di aggiungere qualcosa di vivo. Non concepiva, non riconosceva altro se non ‘la materia del suo spirito’, come diceva lui. Lasciamolo al suo detestabile miscuglio di fantasticherie, di affermazioni vaghe, di insolenze gratuite, di manie. Le sue avversioni e ora la sua sicura avversione al surrealismo, sono av- versioni senza dignità. Sarebbe incapace di decidersi a colpire se prima non fosse sicurissimo di poterlo fare senza pericolo e senza conseguenze. Constatiamo, tra le altre cose, che questo nemico della letteratura e delle arti, non è riuscito ad intervenire se non nelle occasioni in cui c’erano di mezzo i suoi interessi letterari (…). Oggi, questa canaglia noi l’abbiamo vomitata”.

Ma il finale è particolarmente interessante e significativo per il nostro discorso: “Non vediamo perché questa carogna debba ancora aspettare molto per convertirsi o, come probabilmente direbbe lui, a dichiararsi cristiano”. Il processo ad Artaud, di stampo leninista-stalinista, non a caso si concludeva con un attacco al suo spiritualismo, alla sua dichiarazione di cristiano.

Lo storico del teatro surrealista, il francese Henri Behar, che non si è mai occupato di futurismo perché i futuristi erano “fascisti” (questa la sua dichiarazione ad un convegno sulle avanguardie a Firenze al quale parteci- pavo anch’io come storico e relatore del teatro futurista) si è guardato bene in un libro di quasi 300 pagine di raccontare la storia dell’espulsione  di Artaud. Ha quindi raccontato la seguente favola: “Breton ha escluso da surrealismo Artaud e Vitroc colpevoli di essersi prestati all’insulso gioco letterario, creando il teatro Alfred-Jarry e soprattutto mettendo in scena, accanto ad opere che egli forse non contestava, un dramma di Strindberg, al semplice scopo di equilibrare le finanze e farsi conoscere”.

D’altra parte, Artaud aveva avuto il torto, oltre al suo spiritualismo di matrice cristiana, di aver scritto “Nella notte fonda” che “il surrealismo è morto per il settarismo imbecille dei suoi adepti”, che avevano aderito entusiasticamente allo stalinismo, per poi aggiungere: “È il caso di chiedersi come possa interessare alla gente se sia il surrealismo a doversi ac- cordare con la rivoluzione o la rivoluzione debba farsi al di fuori e al di sopra dell’avventura surrealista, quando si abbia presente la scarsa in- fluenza sui costumi e le idee di questo nostro tempo che i surrealisti sono riusciti ad avere”.

Nello stesso scritto Artaud rivendicava: “Io so di avere dalla mia parte nella controversia attuale tutti gli uomini liberi, tutti i veri rivoluzionari, tutti coloro che pensano che la libertà individuale è un bene superiore a quello di qualsiasi altra conquista ottenuta su un piano relativo”.

È vero che la strada intrapresa successivamente da Artaud sarà ben più feconda di quella del surrealismo, ma è altrettanto vero che il Teatro Alfred Jarry e i testi proposti, come ad esempio “I misteri dell’amore” e “Victor” di Roger Vitroc, erano surrealisti. Artaud, nel “Manifesto per un teatro abortito”, della fine del 1926 (13 novembre), scrisse: “Tutto ciò  che appartiene alla illeggibilità e alla fascinazione magnetica dei sogni, quegli strati oscuri della coscienza, che più di ogni altra cosa ci preoccupano nello spirito, tutto ciò lo vogliamo vedere irradiare e trionfare sulla scena (…). Concepiamo il teatro come una vera operazione di magia”.

Tuttavia, se i surrealisti sono gnostici, Artaud non lo è. La sua vita è ossessionata da Cristo, dall’idea di un teatro sacro e religioso. Negli ultimi anni della sua vita, egli si firmava “Uomo del Golgota”. Tutto il suo itine- rario è segnato dall’ossessione del Cristo e della Sua incarnazione. Ripercorrere il dramma dell’incarnazione significa per lui fare un teatro che cerca di assumere la vita. “Il teatro bisogna rigettarlo nella vita”, scrive- va. La religiosità è l’essenza stessa, la ragione stessa del teatro.

Pietro De Marco si è fermato lucidamente su Claudel, a prima vista lontanissimo da Artaud. Ha scritto così acutamente che Claudel “con la sua potente autonomia lirico-tragica cristiana e il contemporaneo sguardo al teatro mondiale (era grande conoscitore del teatro giapponese) è sintomatico di una possibilità di teatro autentica, non pregiudicata da alcuna avanguardia, da alcuna deprecazione gnostica”.

La verità è che l’assalto gnostico del teatro post-drammatico, nonostante tutto, ha trovato proprio nel teatro e nel pubblico del ‘900 una resistenza in ultimo non superabile.

Giovanni Antonucci

 *******************************************************************************************************************************

Originalità e anticonformismo

 Questo libro, complesso nel merito e articolato nei contributi elaborati in epoche diverse, pur con qualche estremizzazione critica, si distingue per originalità e anticonformismo. probabilmente un futuro convegno potrebbe costituirne una proficua amplificazione. Gli scritti che lo costituiscono, di autori di diverse specializzazioni, ricapitolano con dovizia di argomenti lo svolgimento dell’arte e dell’estetica sullo sfondo delle vicende che hanno caratterizzato il divenire della cultura attraverso i vari e drammatici mutamenti sociopolitici del XX secolo.

I numerosi argomenti sull’arte, che vi si trattano, sono introdotti da scritti, di varie epoche, di Don Ennio Innocenti, che, oltre a testimoniare dati di fatto, ha il merito di richiamare chi è cattolico alla coerenza con la dot- trina della propria fede e chi non lo è all’approfondimento di valori logici obbiettivi.

È appena il caso di ricordare che Innocenti, coerentemente con il proprio stato di Ecclesiastico cattolico, ricerca nell’arte e nell’estetica un significato e un fine, che non possono non essere collegati alla realtà come manifestazione sensibile della volontà divina. Così, le sue analisi dell’estetica e le oggettive configurazioni metafisiche che le opere d’arte possono contenere non prescindono mai dalla dottrina della fede e dalla morale cattolica; la stessa bellezza artistica, interpretata come riflesso del divino, è vista come fonte di gioia, ma anche come mezzo educativo delle coscienze (penso soprattutto ai giovani) e di accostamento spirituale al mistero di Dio.

Molte argomentazioni di Innocenti sono suggestive e, sostenute da intensa passione intellettuale e soprattutto da solida volontà pastorale, analizzano documentariamente e commentano, talora con ironia e dichiarata vis polemica e con un linguaggio in alcuni passaggi molto colorito, certi equivoci sullo sfondo dell’ondivaga decadenza estetica, morale e politica dell’Occidente; tuttavia, alcune osservazioni, come la messa in mora dell’idea della libertà da condizionamenti concettuali della bellezza artistica nel pensiero di Kant, debbono discutersi da ulteriori angolazioni critiche. E in tal senso resta esemplare l’analisi che dell’argomento ha fatto un filosofo insospettabile come Nicola petruzzellis, laddove, precisando l’essenziale distinzione del bello dall’utile, ha ricordato che Kant ha attribuito al bello «il significato di simbolo del bene morale», chiarendo anche che il bello è universale se non è ristretto nel soggettivismo, come pensava Kant, ma se è og- gettivo e pertanto «metafisicamente fondato», come riteneva anche F. Schiller. (1) «Il pensiero di Kant e di Schiller [….]», precisa Petruzzellis, «si mantiene in un’alta sfera speculativa e mira a celebrare nella sua autonomia la dignità dell’arte […]» (2). petruzzellis quindi chiarisce che la bellezza artistica è distinta dai concetti, perché la bellezza è tale in quanto splendor formae, aggiungendo: «Non sono sufficienti il concetto e l’idea a produrre la commozione estetica e tanto meno l’opera d’arte; ma non si creda che siano irrilevanti […..]» (3); e precisa: «Se la bellezza coincidesse e s’identificasse con la chiarezza concettuale non avremmo bisogno di ricerche e d’indagini, di manuali scientifici e di opere filosofiche: la contemplazione estetica della natura e le gallerie d’arte, le opere poetiche e musicali potrebbero insegnarci sul mondo e sull’uomo assai più della scienza e della filosofia, riunite insieme» (4). Di esemplare equilibrio è la conclusione di Petruzzellis: «Nella sfera estetica il concetto ha un’impor- tanza subordinata, ma non può essere assolutamente assente» (5).

Con uno sguardo al tempo attuale, mi sembra che l’idea kantiana di una bellezza artistica generatrice di un piacere senza interesse e senza collateralità concettuali possa tornare utile alla difesa sia della libertà creatrice dell’artista sia dell’oggettività della bellezza artistica splendor formae. Infatti, proprio l’eccesso di concettualismo sta ora dilagando nelle stesse Istituzioni pubbliche preposte alla custodia delle manifestazioni estetico-artistiche antiche e moderne; Istituzioni che, sottomesse ad una politica sempre più invadente e meno consapevole, favoriscono ormai un mercato liberistico, che tende a ridurre con prospettive finanziariamente lusinghiere le manifestazioni estetiche contemporanee e le opere d’arte antica a varianti dinamiche della finanza, come lo sono le azioni o qualsiasi altro investimento. Eloquente in tal senso è l’atteggiamento dell’attuale Ministro dei beni culturali e ambientali e del turismo, il deputato cattolico del pD Dario Franceschini, il quale, non appena nominato al vertice estero, anziché ricordare l’esemplare valore estetico e pedagogico dell’arte e della cultura, il significato estetico ed etico della bellezza, in quanto epifania libera dai condizionamenti collaterali della «sinistra cura» (Dante), ha precisato che il “suo” è un ministero «economico».

Purtroppo, questi eccessi di concettualizzazione dell’arte, confusa con la sfera della finanza, hanno contribuito a dare, nell’estetica contemporanea, i risultati qualitativi sotto gli occhi di tutti, con prodotti che spesso sono narcisistiche testimonianze di una presunta rottura con assetti socioculturali ritenuti superati, cui gli stessi contestatori in realtà apparten- gono; assetti che sono il frutto, a loro volta, di precedenti inconsistenti fratture con la realtà dell’esistenza, nella reiterata sperimentazione di so- luzioni estetiche grottesche, effimere e talora platealmente offensive o disgustose. Come lo è il vilipendio del corpo umano, l’esibizione della comune spazzatura o di escrementi organici, l’esibizione del niente per il niente.

Molte di queste operazioni estetiche sono discusse criticamente in questo libro soprattutto da Innocenti, che, collegandole ad una «gnosi spuria», spesso sostenuta da presenze esoterico-massoniche collegate alla politica  e al mondo della cultura, ne sottolinea la concettuale tendenziosità e spesso la gratuita volgarità, animata dall’odio per i misteri della fede e della morale cattolica, secondo tradizioni ideologiche storicamente determinate: come nel caso della Madonna costruita con sterco di elefante dall’an- glo-nigeriano Chis Ofili, che gli è valso il premio Turner; o come le performances vicine all’industria della pornografia, che vanta fatturati finan- ziari mondiali di tutto rispetto; per non parlare, anche a livello di moda popolare, delle vistose manipolazioni del corpo umano attraverso i tatuaggi ed altre alterazioni, che interpretano il corpo (sottolinea Innocenti) «come scelta reversibile post-humana».

Innocenti traccia quindi un profilo dell’estetica nel corso dei secoli, collegandolo al progressivo decadimento dell’idea di religione e della morale, cui si preferisce, in nome di una rigenerazione globale, l’esoterismo, l’inconscio e quindi la psicanalisi, che illustrano una irrealtà solipsistica avulsa da ogni vivere reale. Il New Age, l’età dell’Acquario ne sono recenti testimonianze.

Sintetizzando, per l’arte contemporanea, la sua analisi muove dall’irrompere conclusivo, nel primo ventennio del XX secolo, degli ultimi  esiti del Romanticismo, le Avanguardie europee: Dada, il Cubismo, l’Astrattismo, il Surrealismo, il Futurismo; Avanguardie, che (egli sottolinea con severa ermeneutica) furono prive di autentica spiritualità, mentre, condizionate più o meno dichiaratamente dalle ideologie anarco-rivoluzionarie allora imperanti, vagheggiarono la distruzione in este- tica di ogni tradizionale distinzione di genere, di materiali e di espressioni. Così che il Ready Made (una ruota di bicicletta su uno sgabello),  un comune Scolabottiglie, del 1913 e del 1914 e The Fountain (un orinatoio da parete), del 1917, di Marcel Duchamp, divennero gli archetipi diacronici della rottura assoluta con ogni identità artistica precedente; in particolare con l’idea di bellezza, ancora ed emblematicamente sbeffeggiata da Duchamp nel 1920 con l’incisione della Monna Lisa integrata di baffi e pizzetto. Si pensava che questo sarebbe bastato per decretare inappellabilmente la fine della tradizione e implicitamente della creatività dell’artista, chiamato ormai ad impiegare oggetti d’uso in virtù di una tendenza negazionistica del bello artistico; una tendenza che sarebbe riecheggiata a ondate ricorrenti per tutto il Novecento, fino, per esemplificare, al Coca Cola plain, del 1958, di Robert Rauschenberg, al Trycicle, del 1960, di Jean Tinguely, alla Brillo Box, del 1964, di Andy Warhol e all’ulteriore, recente (1983), rivisitazione irridente della Monna Lisa da parte di Jean Michel Basquiat. Il tutto, rimarca Innocenti, visto il registro delle date di tale indirizzo dagli esordi agli attuali esiti, è testimonianza del fallimento dell’originaria volontà avanguardistica di rinnovare sia l’etica che l’estetica nonché la politica; al contrario, questa ha con abili seduzioni mercantilistiche assimilato nei propri tradizionali schemi di potere i suoi stessi contestatori di ieri e di oggi. Infatti, le ripetute dichiarazioni di guerra alla bellezza artistica e al potere da parte delle svariate Avanguardie novecentesche sono state tanto numerose quanto effimere nella loro indistinzione materico-formale; in real tà, esse hanno dato risultati utili per lo più al mercato dell’arte, nono- stante siano state giustificate fin dagli inizi da cetico, tipico di molti intellettuali novecenteschi: così, Roger Fry, in occasione delle mostre dell’arte postimpressionistica alla Grafton Gallery  di Londra (1910-1912), dichiarò al pubblico indignato per l’esposizione di opere prive di somiglianza con i dati reali e di bellezza, che l’arte, in quel momento ritenuta brutta sarebbe stata in seguito considerata bella! Un ottimismo, quello di Fry,  ripreso, in tempi più vicini a noi ancora più analiticamente in chiave giustificazionistica, da Roy Liechtenstein, il quale ha osservato: «L’antisensibilità è l’attitudine più caratteristica, io credo, dell’arte recente nel senso che è la più dissimile dagli orientamenti del Rinascimento verso la transizione, lo svolgimento logico, la sfumatura decisa e  l’eleganza.

Malgrado l’attitudine di antisensibilità appaia vuota, meccanica, volgare e brusca o ispirata da scelte a priori o non artistiche, il suo vero significato, penso, sta nella sensazione personale dell’artista di realizzare un’im- presa difficile, rispettando allo stesso tempo tutti i tipi di sensibilità» (6). A tale universalistica e indifferenziata affermazione corrispondono diver- se traduzioni: il Fool’s house, di Jasper Johns, le “vivande” di Fluxus, i “fumetti” dello stesso Roy Lichtenstein, la voragine scavata in una mon- tagna presso Oakland, in California, presentata da Denis Oppenheim, i vagheggiamenti ambientalistici di Joseph Beuys, le carcasse di copertoni automobilistici di Allan Kaprow, i rottami di metallo di carrozzeria verniciata a fuoco, di John Chamberlain, il recente (1994) Andy Warhol Robot, di Nam June paik e tanto altro; in tale contesto, un cenno a parte lo meritano, degne di rappresentazioni cinematografiche horror, le Azioni di Gina Pane, Gunter Brus, Herman Nitsch, quest’ultimo impegnato (che ne pensano gli animalisti?) a ridicolizzare in cruente forme sacrificali paga- no – cristiane sia l’uomo che gli animali, e infine, un recentissimo water dorato, di Cattelan.

A proposito della sterilità delle ricorrenti Avanguardie nel II dopoguerra, gioverà ricordare quanto osservava già negli anni Cinquanta del Novecento Mario De Micheli: «Niente […] è più lontano dallo spirito del- l’avanguardia vera del tentativo assai diffuso di questi tempi di riprendere i modi, i mezzi e le scoperte dell’avanguardia in chiave di gusto e di mo- da: il gusto e la moda sono la negazione dell’avanguardia, sono proprio ciò contro cui l’avanguardia è insorta». (7).

Ancor più incisivamente e precedentemente, Cesare Brandi, già alla fine degli anni Quaranta, aveva analizzato la sterilità delle avanguardie impegnate nella configurazione di un’umanità ancorata al «mercato del pre- sente», di cui l’avanguardia si limita a testimoniare genericamente e reiteratamente il dato esistenziale (8). Osservava Brandi che, già negli anni Venti del Novecento il Futurismo finì per essere riassorbito nel Cubismo, che, a sua volta, si distaccava dall’“avanguardismo” del movimento ro- mantico, con le sue appendici di Dada, di Futurismo e di Surrealismo. Quest’ultimo, ha sottolineato Brandi, non ha avuto granché di rilevanza nel secondo dopoguerra, rimanendo latamente collegato al Dadaismo, so- prattutto nella coltivazione del nihilismo assoluto.

A voler tentare una sia pur provvisoria conclusione, si può rilevare che in una società ostaggio del globalismo finanziario, fondato sull’immediatezza del rapporto costi-ricavi, anche riguardo alle ragioni dello spirito, è pressoché impossibile parlare non solo di estetica o di etica, ma di logica, di metafisica o di scenari della spiritualità: il globalismo finanziario esige la completa rinunzia al passato, l’assenza di giudizio, la proiezione del tutto nel niente, il trionfo diabolico del ripugnante sulla bellezza. Ma l’ar- te è realtà pura che si attinge se lo spirito fa proprie, superandole, le presenze del dato reale, se sospende le urgenze del flusso esistenziale, se mi- ra, libero da contingenze materiali, a realizzare la forma splendor pulchritudinis.

Lo stesso Astrattismo, se persegue solo la distruzione dell’immagine naturalistica, si esaurisce nella circoscrizione di uno sterile esercizio intellettualistico, riservato a pochi cultori di quella che Innocenti ha definito «Gnosi spuria». per esemplificare, altra cosa è l’Astrattismo poeticamente evocativo di artisti come Sandro Sanna, paolo Marazzi, Bruno Liberaore, Angelo Casciello, Laura Stocco, Sinisca, Lucia Romualdi, Tito; quest’ultimo, nelle sue astrazioni luministico-geometriche, evoca la perfezione del rapporto spazio-tempo-infinito, in cui l’esistere è proiezione dell’Essere.

Severa è la critica di Innocenti al Surrealismo e all’Astrattismo; del primo egli non accetta il rifiuto della forma, che Breton definiva un «male», e dell’eredità artistica di tradizione cristiana, nonché l’azzeramento di ra- zionalità e coscienza in nome di una neognostica palingenesi, in cui «l’immaginazione artistica è sciolta dalla natura». All’Astrattismo egli attribuisce, un po’ troppo rigidamente, la propensione gnostica a rivolgersi esclusivamente ad una ristretta cerchia di eletti che vagheggiano (sono sue parole) «il mito dell’assoluto smaterializzato», che vira verso un generico pan-nihilismo e che, a livello divulgativo, contribuisce a dar vita al fenomeno della pop-Art, in cui si vanifica «il concetto di capolavoro, di opera d’arte, di memoria prolungata». Del resto, lo stesso Giulio Carlo Argan avvertiva che «la pop-Art non è espressiva della creatività del polo ma della non creatività della massa», precisando che con Robert Rauschenberg e Jasper Johns «si entra nel circolo della pura “aleatorietà”: nell’ambito, cioè, di una voluta indistinzione del fenomeno estetico da tutti gli altri fenomeni, sia che appartengano all’esistenza privata dell’artista o del mondo» (9). Così, sottolinea Innocenti, Andy Warhol non ricerca significati ma la trasfigurazione del banale; Beuys «vuole ri-fondare l’Europa con un nuovo concetto di uomo che si libera di tutta la storia»; un concetto questo ripreso sul piano teoretico postmodernistico  da Gianni Vattimo, mentre Yves Klein ricorda che l’arte libera il mondo dai rapporti oggettivi e fa immergere allegoricamente nel fluido dell’indeterminazione cosmica. In ulteriori sviluppi di libertarismo assoluto, la Body Art interpreta il corpo umano come un oggetto di messaggi subliminali, integrati ripetutamente (osserva Innocenti) da performances sessuali; come in Made in the Heaven, di Jeff Koons, esemplare manifesto pornografico presentato alla Biennale di Venezia del 1990, con protagonisti lo stesso Koons e Cicciolina, opera sintomatica anche della vivace duttilità delle Istituzioni del parlamento della Repubblica Italiana (Ilona Staller, in “arte” Cicciolina, ha fatto parte della Camera dei Deputati nella X legislatura, 1987-1992). Ma la manipolazione, anche lesionistica del corpo, si afferma “democraticamente” con la diffusione dei tatuaggi e, su un gradino più elitario, con la chirurgia estetica, finalizzata a nascondere illusoriamente e talora con risultati quanto meno grotteschi i segni del tempo sul corpo umano.

L’analisi di Innocenti si fa serrata quando ricorda l’iniziativa di alcuni ec- clesiastici, i quali fanno appello ad artisti non cattolici per decorare chiese di Cristo, non considerando il rischio della progressiva secolarizzazio- ne, che ha reso molti artisti contemporanei non “creatori” di bellezza evocatrice del divino, ma, come già avvertiva Giulio Carlo Argan, «tecnici dell’immagine […] allo stesso modo che i poeti veramente moderni non vogliono essere altro che tecnici della lingua» (10).

In realtà, forse in una ridondanza antropologizzante del divino finalizzata al proselitismo, si sottovaluta ingenuamente il problema della coerenza e della comprensibilità delle raffigurazioni dei segni della fede; in altre parole, non si distingue il sacro da ciò che è professionale, come se l’architettura e l’arte di destinazione ecclesiastica fossero simili a una tecnica chirurgica, la cui pratica è indipendente dallo status di ateo o di credente degli operatori: un architetto ateo può bene realizzare edifici civili (scuo- le, palazzi delle pubbliche Istituzioni, edilizia residenziale e popolare etc.), ma, non condividendo i misteri della fede cattolica, che per i cre- denti hanno valore assoluto, a cosa si ispirerà per creare architetture religiose considerate “case” di Dio, in cui, come ricorda Innocenti, si unisco- no coloro che credono nel sacrificio di Cristo? E lo stesso avverrà per un pittore o uno scultore, chiamati a decorare delle chiese cattoliche. Alcune di queste, di recente costruzione, sono ineccepibili moduli orizzontali, ma senza alcuna tensione strutturale verso l’alto e quindi senza una spazialità esterna ed interna traduttrice delle ragioni dello spirito e della condivisione del culto divino. Guardando questi edifici, estesi spesso su piani orizzontali, si ha talora l’impressione di vedere un auditorium, un centro commerciale o sportivo, un aula per congressi (11). Avvertiva S. Giovanni Paolo II nell’omelia nella Messa per gli artisti a Bruxelles, il 20 maggio 1985: «Ogni arte autentica interpreta la realtà al di là di ciò che perce- piscono i sensi […]. Ogni arte autentica è, a suo modo, una via d’accesso alla realtà più profonda che la fede mette in piena luce […]».

Fra i contributi di questo volume ne ricordo tre in particolare.

Il primo, di Ciro Lomonte, traccia un equilibrato profilo dell’architettura dalle cattedrali ad oggi, ricordando il valore del simbolo, come tessera di riconoscimento proveniente dal passato, che permette a più individui che non si conoscono di riconoscere la propria appartenenza ad una stessa identità. Lomonte sottolinea l’esigenza di tornare a guardare alla realtà «con occhi limpidi, senza filtri intellettualistici» e mette in guardia dalle elucubrazioni estetiche. Queste sono spesso funzionali al mercato e, grazie al cosiddetto “Mondo dell’arte”, godono di altissime quotazioni senza avere rilevanza artistica. Il loro accredito è apparentemente moralistico: di essere presunte opere di denunzia e di testimonianza dei più svariati ar- gomenti, per lo più collegati all’ingiustizia che governa il mondo, espresse spesso in definizioni materiche ostentatamente sgradevoli.

Condivisibili le osservazioni di Lomonte, che «la bellezza è un trascendentale dell’essere, una caratteristica di ogni ente in quanto ente» e che, nella fruizione estetica il desiderio non può che essere disinteressato. L’altro saggio, di Carlo Fabrizio Carli, è un’esemplare ricapitolazione della crisi della pittura e della scultura nel XX secolo e delle luci che ancora è dato trovarvi. Carli ricorda come Cézanne sia stato l’archetipo di parecchi artisti contemporanei e come, nel vasto repertorio di temi storici, psicologici, sociali e naturalistici, ci sia stato spazio anche per non poche raffigurazioni sacre, come, per esempio, I funerali di una vergine, di Gaetano Previati, un’opera del 1914, che segue un suo Ecce Homo, del 1899- 1900 e una Via Crucis.

Carli si sofferma quindi sui percorsi delle Avanguardie novecentesche, Dadaismo, Espressionismo, Cubismo, Futurismo, Astrattismo, Surrealismo…, di opposizione alle tradizioni estetiche e al museo, nonché alla bellezza artistica; e sottolinea criticamente quanto disorientamento abbia gettato nelle coscienze degli artisti del secondo dopoguerra la più grande tragedia bellica dell’umanità, culminata sotto i cieli di Hiroshima e Nagasaki, che contribuì psicologicamente a rafforzare la volontà di disgregare la forma artistica. Ma non solo: lo sconvolgimento causato da quella terribile strage contribuì a portare a compimento la perdita del legame fra l’arte e la realtà, favorendo la diffusione di spiritualismo esoterico, materialismo ed individualismo autoreferenziale in permanente contrasto con  il dato naturale. Nella crisi generale delle coscienze, l’Espressionismo in particolare agevolò il distacco dalla Chiesa degli artisti, divenuti interpreti quasi esclusivi della disperazione esistenziale. Ma non tutti i pittori e gli scultori evitarono i temi religiosi; Carli ne ricorda alcuni: Georges Rouault, Mario Sironi, Domenico Cantatore, Lorenzo Viani, Fausto Pirandello, Henri Matisse, il quale, forse un po’ troppo onnicomprensivamente, osservò che sono opere d’arte sacra tutte quelle opere che suscitano raccoglimento e pace, elevando lo spirito. Fra gli stessi Futuristi (ricorda an- cora Carli) ci fu chi trattò con convinzione temi sacri, come Gino Severini, convertito al Cristianesimo da Jacques Maritain. Ma in questo elenco c’è anche Giorgio De Chirico, per le sue 22 tavole litografiche dedicate nel 1940 all’Apocalisse, e, fra tanti laici, anche un ecclesiastico di alto livello, il frate cappuccino Ugolino da Belluno, che ha avuto la capacità poetica di trasformare in pittura le parole delle Sacre Scritture; e ancora (sottolinea Carli) l’astrattista Lorenzo Guerrini e il transavanguardista Mimmo Paladino.

Un ampio sguardo Carli lo rivolge anche alla scultura contemporanea di tema sacro, citando l’opera di Adolfo Wildt, di Lucio Fontana, di Duilio Cambellotti, di Arturo Martini. Ricorda quindi un episodio significativo dell’attenzione rivolta dalla Chiesa, nel dopoguerra, agli artisti: L’Esposizione internazionale di arte sacra MCM-MCML, voluta da Pio XII, che ne affidò l’organizzazione alla pontificia Accademia Artistica dei Virtuosi al Pantheon. Una rassegna che, fra i non pochi meriti, ebbe quello di presen- tare un nutritissimo numero di opere di artisti italiani, fra i quali Giacomo Manzù, che, di lì a pochi anni, avrebbe realizzato, per approvazione di pio XII e per volere di Giovanni XXIII, porte per la basilica di San Pietro.

L’ampia ricapitolazione di Carli dedicata alla scultura di tema sacro si conclude con il ricordo di altri scultori straordinari: Venanzo Crocetti, Vico Consorti, Luciano Minguzzi, Francesco Messina, Mirko Basaldella, Emilio Greco, Umberto Mastroianni, Leoncillo, pericle Fazzini, Giuliano Vangi, Francesco Somaini, Tito. Detto, infine, per inciso, molti dei pittori e degli scultori da Carli ricordati furono, e taluni, lo sono tuttora, Accademici Virtuosi del Pantheon.

Di indubbio interesse è infine lo scritto di Roberto Dal Bosco dedicato al significato della moda, che nelle varianti degli ultimi due decenni è stata una teorizzazione estetica della necrocultura, come concetto sovvertitore dell’ordine naturale delle cose, con particolare riferimento al corpo della donna. La diffusione della tragedia dell’anorressia fra i giovani è stato un risultato tragico di questo indirizzo negazionista dell’equilibrio della vita e della presenza della bellezza femminile, sostituita, osserva Dal Bosco, dall’indistinto ermafroditico: il fine è la decomposizione soprattutto del corpo della donna, che, non essendo più desiderata, diviene l’emblema stesso della solitudine e dell’infertilità. Come osserva Dal Bosco, fino  agli anni Ottanta, le indossatrici «erano donne di ammaliante bellezza, qualsiasi cosa le mettessero addosso» e gli stilisti, che (lo sottolineo) erano anche sarti, le vestivano con grandi risultati estetici. In realtà, fino agli anni Ottanta del Novecento, la moda, nel suo dinamismo creativo, ha consacrato la proiezione dell’artigianato sartoriale, praticato da uomini e donne, verso l’arte, realizzando vari modelli, che hanno esaltato la bellezza femminile, indirizzati progressivamente anche a vasti strati popolari. Il prêt à porter è stato la vulgata di inarrivabili esemplari prototipici.

Il XX secolo, fino agli anni Ottanta, ha testimoniato una vivace mobilità creativa nella moda, che ha spesso declinato imperituri ideali di bellezza del passato in forme nuove. Così, Mariano Fortuny mosse dalla rivisita- zione del mondo greco presentando, nel 1909, il seducente abito Delphos, un chitone realizzato in seta di bachi appositamente importati dalla Cina, che sarebbe stato venduto anche in boutiques di Venezia, parigi e Londra. Il sistema della moda nel Novecento, nonostante gli epocali rivolgimenti socio-politici e le conseguenti, immani, tragedie belliche, si è imposto con le sue ardite linee, i morbidi volumi impreziositi da audaci o sobrie decorazioni, i rutilanti colori; ha sorpreso e affascinato il mondo della po- litica, dell’arte e della cultura e anche strati della popolazione. Un mondo che tuttavia è stato inaspettatamente sconvolto, agli inizi degli anni Venti, dall’irruzione sulla scena di una creatura femminile non bellissima ma dotata di un fascino inusuale e di un eccezionale talento: Gabrielle Chanel, detta Coco, che avrebbe ammaliato con le sue creazioni, nate, dal 1921, nel suo atelier di rue Cambon, artisti, intellettuali, aristocratici, politici, come Dalì, Picasso, Jean Cocteau, il granduca Dimitrij di Russia, il duca di Westminster. Alla genialità classico-moderna di Chanel si deve una nuova interpretazione del tailleur, realizzato anche con nuovi tessuti di maglina morbida, per vestire senza costrizioni il corpo della donna; nacquero così abiti che si distinguevano anche per la semplificazione di alcune parti essenziali: erano tailleurs senza revers, senza colli, ma esibi- vano luccicanti decorazioni di catenelle, pietre colorate, perle e passamanerie di seta multicolore.

Lungo è l’elenco dei grandi sarti-stilisti, che, nel Novecento, hanno vivacizzato la bellezza femminile, disegnata in sapienti proporzioni di linee, volumi e colori, coniugati in un eccezionale equilibrio materico, frutto, certamente, di genialità, ma anche di perfetta esecuzione sartoriale (nel caso di Balenciaga, al limite della maniacalità!). Ricorderò almeno, fra i più grandi, oltre a Cristobal Balenciaga, Christian Dior, Hubert de Givenchy, le Sorelle Fontana, Irene Galitzine, Pierre Cardin, Roberto Capucci, il classicismo stravagante e pittoricistico di Emanuel Ungaro, la genialità irrefrenabile di Yves Saint-Laurent, l’eterna giovinezza creativa classicistica e modernamente brillante di Valentino Garavani (in arte Valentino). Un mondo, che ha esaltato in termini di raffinatezza e di elegante seduzione la bellezza del corpo della donna; un mondo a cui non riescono ad appartenere alcuni recenti stilisti eccentricamente contestatori (ancora le avanguardie!), i quali, pur dotati di brillanti capacità creative, non possono non risentire della generalizzata vacuità estetica del mondo che stiamo vivendo.

In conclusione, questo libro curato da Don Ennio Innocenti è un invito, perentorio ed affettuoso nello stesso tempo, a riscoprire con entusiasmo e fiducia Cristo, Dio che si fa uomo, infinito della bellezza nella bellezza della forma artistica in tutte le sue forme, e a ritrovare il senso della realtà naturale delle cose; in questo, Innocenti ha per viatico un pensiero di S. Giovanni Paolo II, il quale, nel 1985, da amante dell’arte qual era, ricordava: «L’arte non apre all’inconscio ma al più conscio, porta l’uomo a sé stesso e lo fa essere più uomo».

NOTE

  1. NICOLA PETRUZZELLIS, Filosofia dell’arte, ISTITUTO «BEATO ANGELICO» DI STUDI pER L’ARTE SACRA, Roma, MCMXLIV, 283.
  2. Ibidem, p. 282. 3. Ibid., p. 281. 4. Ibid., p. 288. 5. Ibid., p. 282.
  3. Da Lecture, 1964, in M. MENEGUZZO, in La Storia dell’arte. L’Arte contemporanea, 18, Milano 2006, p. 283.
  4. DE MICHELI, Le avanguardie artistiche del Novecento, ed. Mila- no 1971, p. 290.
  5. Nella corposa produzione critica di Cesare Brandi sull’arte contempo- ranea, spiccano, dedicati alle avanguardie storiche e recenti, due saggi pubblicati in Scritti sull’arte contemporanea, II, Torino 1979: il primo è La fine dell’Avanguardia, pp. 57-125, pubblicato per la prima volta in “l’immagine”, 1949; il secondo, pp. 166-170, è del 1978, ed è intitolato eloquentemente Ancora la fine dell’Avanguardia.
  6. C. ARGAN, L’arte moderna,1770 / 1970, Firenze 1970, p. 670.
  7. Ibidem, p. 606.
  8. Ho trattato l’argomento nell’articolo “La Chiesa e gli artisti contem- poranei”, in “Annali della pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon”, XIII/2013, pp. 241-257; in particolare, per l’argomento qui richiamato, pp. 246-248. Sul rapporto fra liturgia e architettura nelle chiese contemporanee, si veda anche S. BENEDETTI, Tiburi di luce: una manifestazione cristocentrica dell’architettura sacra, in “Annali della pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al pantheon”, XIII/2013, pp. 39-48.

Vitaliano Tiberia

 *********************************************************************************************************************************

Commento

di Romina Marroni  

 

Don Ennio Innocenti si cimenta in un terreno vasto, ricco di insidie e molto controverso. L’arte, in tutte le sue modalità, e l’atto creativo hanno da sempre fatto parlare di sé critici, appassionati, teorici, filosofi ed… artisti. D’altra parte l’arte si fa interprete della cultura dominante ma nello stesso tempo la influenza, da qui la sua importanza nella storia dell’uomo in ricerca del senso del suo esistere. L’autore conosce perfettamente l’importante ruolo degli artisti e per questo il libro, pur essendo un saggio ap- profondito, si trasforma esso stesso in opera d’arte che ispira un desiderio di riscoperta del Bello e di Dio. Il libro assume il significato di un appello ragionato, documentato, forse divinamente ispirato, agli artisti: si facciano essi ancora strumento della grazia divina che aiuta a osservare il crea- to e le creature con uno sguardo soprannaturale disvelante il supremo Disegno di Dio. L’autore, già cultore del Bello, cristianamente inteso, è cer- to che avrà un ruolo importante nel risollevare l’umanità dall’attuale degrado derivante dall’abbandono di Dio da parte dell’uomo. Il sovverti- mento dell’ordine naturale e soprannaturale è chiaramente illustrato fin dalle prime pagine dell’opera, nelle quali l’autore ripercorre l’evoluzione (o involuzione) del pensiero fino alla modernità mettendola in relazione con gli effetti visibili nell’arte. È da notare che il discorso dell’autore non è semplicemente un’indagine storico-artistica delle correnti di pensiero ma fin dall’inizio esso si presenta come frutto di una profonda riflessione maturata nel tempo; riflessione che riguarda in primis l’artista ed il suo rapporto con l’atto creativo, si direbbe anche della sua psicologia in rela- zione all’ispirazione, al suo estro. Riflessione che continua sull’opera artistica in se stessa, circa il mezzo e la forma che l’artista sceglie e perfe- ziona, e si dilata fino a considerare l’osservatore nelle sue sfumature interpretative filtrate attraverso il suo mondo spirituale. Ma ancora, ciò che più apre gli orizzonti al lettore è il rimando continuo all’apertura all’Infinito insita nell’uomo, a cui l’artista credente deve (o dovrebbe) attingere per saziarsi egli stesso di Dio e per poter esprimere questo amore, perché in fondo è questo il vero motore interiore, attraverso la sua opera per il bene dei fratelli; don Ennio scrive: «…se l’artista progredisce nella comunione religiosa, può indurre il fruitore in analoga ascesa. E questo è, alla fine, il motivo dell’arte nella Chiesa» (pag. 16).

Ecco che allora fin dalle prime pagine si delinea in modo chiaro e diretto il senso del titolo che risponde alla possibile domanda: «Cosa c’entra la gnosi con l’arte?». L’autore lo illustra in modo magistrale e va oltre in- tessendo un parallelo, sempre chiaro e lineare, tra il decadimento cultura- le iniziato dal radicarsi del trascendentalismo di matrice kantiana, e il progressivo inquinamento della gnosi dei perfetti (insegnata da Gesù e trasmessaci dagli Apostoli e dal Vangelo). La gnosi pura, che è solo Divina, può tuttavia essere partecipata, nella misura in cui è possibile, dal- l’uomo se in lui c’è la volontà di recepirla; l’autore sostiene che la gnosi dei perfetti è accessibile a tutti gli uomini di buona volontà. L’arte cristiana si sviluppò grazie a questa volontà di recepire il mistero divino e di dargli espressione, tuttavia l’espressione artistica non inizia con l’era cristiana ma è connaturata all’uomo perché l’uomo è religioso. La gnosi inquinata, afferma l’autore, esisteva prima dell’avvento di Gesù, ed è appunto con il Suo arrivo che la vera conoscenza si fa strada nel cuore, nella cultura ed anche nell’arte. L’esplosione dell’arte religiosa cristiana è manifestazione di apertura a Dio, di ispirazione sublime. L’inquinamento gnostico mai sopito romperà il binomio arte-Verità, così come una filosofia corrotta romperà l’unione tra Creatore e creatura aprendo le porte al soggettivismo più sfrenato i cui effetti nell’arte l’autore illustra sapientemente: «Questi artisti non si preoccupano più di capire un mondo che non è realtà in sé, privo di qualunque fine obiettivo, presumono d’esser creatori e parlare una lingua originale, una lingua loro, sia o no intesa dal prossimo» (pag. 17). L’osservatore, come si diceva sopra, non è un surplus, secondo l’autore, ma è parte fondamentale del trinomio opera-ar- tista-osservatore.

Nell’opera di don Innocenti l’arte è sociale ed è investita di una missione divina, e non poteva essere altrimenti non solo perché l’autore è un sacer- dote profondamente amante dell’arte, ma perché l’arte ha la sua radice in Dio. Non è un’opinione ma è il frutto dell’esperienza religiosa dell’uomo che don Ennio illustra pienamente in tutto il suo libro. L’arte se non è an- corata in Dio è solo espressione di se stessi e difatti dalle pagine risulta chiaramente che il soggettivismo ha ucciso l’espressione artistica. Ecco perché l’opera di don Ennio è ambiziosa: essa vuole spronare gli artisti a ritrovare la gioia di vivere nella contemplazione di ciò che il Creatore ci ha donato, vuole spronarli ad essere fautori di un cambiamento interiore che deve essere illuminato dall’alto, portatori di luce, interpreti di un pos- sibile ritorno a Dio. Così come il santo dedica la propria vita a Cristo e la ripone nelle Sue mani affinchè Egli la plasmi con la Sua grazia ed il Suo Spirito e la trasformi in un’opera d’arte per il bene dei fratelli, così anche l’artista, mediatore al di sopra dell’uomo comune, deve abbandonare se stesso per farsi strumento di Dio. Vuole preparare l’osservatore, l’appas- sionato ed il fruitore dell’opera d’arte ad accogliere nuova linfa e quindi artisti magari sconosciuti nei quali l’impronta della grazia si manifesta agli occhi allenati. Sì, questo libro può essere definito una palestra per artisti e fruitori. La domanda che criticamente ci si potrebbe porre è questa: può esistere un’arte che non sia religiosa? La risposta che si ricava dall’opera fin dai primi capitoli dedicati ai binomi “realismo ed estetica” e “verità e bellezza” è questa: esiste l’arte che rifiuta la religiosità ed è quella moderna. L’autore è bravo nell’inquadrare il livello a cui è giunta l’arte dopo l’abbandono di Dio e della realtà ontologica dell’Essere: le opere sono il frutto di «una realtà subordinata al giudizio estetico tanto soggettivo quanto arbitrario, ad un estetismo oscillante tra esaltazione individualistica e depressione, sempre più preda di gruppi di interesse estranei all’arte, corruttori degli stessi artisti» (pag. 23). L’arte vera e genuina è quella che si fonda sull’«estetica vera, autenticamente umana e perciò capace di recepire nuovamente l’ispirazione del Vangelo Salvatore» (pag. 24). La risposta più ampia e ragionata alla domanda, che nel libro non c’è ma che può nascere nel lettore, è racchiusa nel disvelamento che l’autore fa della sua sublime concezione dell’arte e dell’estetica a  pag. 24 e seguenti, insomma proprio all’inizio del libro, e proprio fin dal l’inizio il lettore è preso per mano ed accompagnato verso piani di rifles- sione non comune: «…tutte le perfezioni create sono radicate in Dio, e quindi tutte le creature, ma l’uomo somiglia a Dio più di ogni altra crea- tura dell’universo materiale, a causa della perfezione del suo essere spi- rituale per il quale è aperto all’Infinito. Di qui la sua somiglianza con Dio nel generare il proprio pensiero […], grazie al quale dirige il pro- prio operare […] sempre per un amore, e – tendenzialmente – per il perfetto amore» (pag. 28). pertanto colui che è l’artefice di un’opera bella deve farsi illuminare dal Verbo e deve corrispondere «all’Amore più alto e così realizzare la gnosi perfetta». Bellezza, Verità, Amore, tutti attributi di Dio che in Lui sono uniti indissolubilmente, così anche nell’opera d’arte ispirata da luce soprannaturale essi dovranno essere presenti e do- vranno altresì comunicare all’osservatore la loro presenza certamente me- diata dall’artista ma pur sempre valorizzata da frammenti di cielo cattura- ti in una forma. Ed ancora l’autore: «la decadenza è fatale quando si per- de il senso della realtà, della creaturalità, della trascendenza divina. […] Allora l’uomo si ubriaca e corre verso il nulla […] illudendosi con false luci, mentre si evidenzia sempre più l’eclissi del Verbo Divino». E prosegue riassumendo in poche parole, concise ma squisitamente significative, il dettaglio di questa decadenza artistica rispetto al Cristo: esaltazione dei miti pagani rispetto alla realtà storica di Gesù, poi ripudio della Sua divi- nità ed esaltazione dell’uomo umiliato come se fosse annientato; trionfo della cultura pagana e mitizzazione di Gesù che rimane svuotato di tutto, ma non è Lui a svuotarsi, è l’uomo che perde la propria ragione di vivere così come l’artista perde la sua libertà di essere e diventa schiavo delle mode del momento al servizio delle ideologie diaboliche.

Addentriamoci con l’autore ed i suoi illustri collaboratori sulle tracce della gnosi nell’arte, dove per gnosi si intende non quella divina e quindi perfetta, ma quella spuria, ossia inquinata; inquinata dalle elucubrazioni umane che hanno tentato di sostituire la parola di Dio con schemi illusori dettati dalla ragione: la dinamica dell’esistenza si risolve in un intreccio del doppio contrario; nero e bianco che si oppongono in un duello che in realtà non sussiste perché entrambi parte del Tutto, dell’Indifferenziato in cui i due opposti si equilibrano. Leggendo queste pagine come non pensare all’intero pensiero di C.J. Jung (fine ‘800 primi del ‘900) basato sui principi di tesi, antitesi e sintesi applicati alla coscienza e quindi all’ascesa spirituale dell’uomo? Egli stesso per spiegare il suo approccio alla mente prendeva come esempio le raffigurazioni mitiche soprattutto dell’Oriente, come l’Uroborus, il serpente che si mangia la coda, simbolo della ciclicità dell’esistenza e di un continuo ripetersi. Come non pensare alle filosofie e religioni orientali fondate appunto sulla ciclicità, sull’eter- no ritorno, che hanno rappresentato nei loro simboli proprio la dualità dello gnosticismo. Basti pensare al simbolo del Tao: un cerchio suddiviso in due parti, una bianca ed una nera, in cui in ciascuna vi è un circolino di colore opposto; come a significare che il nero è nel bianco e viceversa e quindi sono indistinguibili ed entrambi hanno lo stesso valore. Questo pensiero gnostico è una freccia che irrompe nell’animo umano ed è potentissima: è l’arma contro la cristianità, nella cultura, nell’arte e nello spirito. La gnosi spuria, come la chiama l’autore, sarà adottata dal Rinascimento, epoca che vede la rinascita dei miti pagani, e poi passata in eredità alla massoneria che la farà evolvere in esoterismo, fenomeno dilagante nel ’900 e tutt’ora in auge. L’autore cita di sfuggita la psicoanalisi, argomento già affrontato in altra sua opera, tuttavia sarebbe stato più incisivo sottolineare il fatto che l’applicazione, come si diceva poc’anzi, della gnosi inquinata alla coscienza umana ha per così dire sdoganato un pensiero pericolosissimo e lo ha reso accettabile anche ad ignari cristiani. La psicoanalisi di Jung ha il triste primato di avere reso il pensiero gnostico un dogma, un diktat a cui anche gli artisti si sono assoggettati o, più grave, a cui hanno aderito con la loro mente ed il loro spirito. Ma non solo, anche gli osservatori, cresciuti alle scuole intrise di gnosticismo hanno maturato una sensibilità gnostica e, come se non bastasse, l’interpretazio- ne gnostica dell’opera è presentata come un progresso, una novità assoluta che inebria l’intenditore. Ma Don Ennio ci mette in guardia: la gnosi spuria è vecchia quanto l’uomo! Ritornando al ’900, a conferma di quanto appena illustrato, l’autore, insieme a Carlo Fabrizio Carli, nel capitolo 4 affronta il retroscena meditativo e culturale di un musicista e pittore, Luigi Russolo, iniziatore insieme ai più noti Marinetti e Carrà del futuri- smo. Non è una sorpresa trovare una profonda dedizione all’esoterismo, all’occultismo e allo studio di opere filosofiche indiane. Si ricordi che pu- re Jung fu un assiduo sperimentatore di pratiche occulte, spiritistiche. Emerge, comunque, da diversi studi presentati, che tutti i più noti espo- nenti di questo movimento artistisco erano esoteristi cultori di magia alla Kremmerz e dediti allo studio dell’antrosopofia di Rudolf Steiner. Arnaldo Ginna, altro famoso futurista, dirà: «Con Steiner l’occultismo si eleva a senso spirituale» (pag. 38). Ampliando lo sguardo all’oggi una frase di tal genere mette i brividi: non sono forse sparse in molte parti del mondo ed anche in Italia asili e scuole cosiddette steineriane, ossia scuole che si rifanno alle teorie educative proprio di Steiner? Non sono forse scuole a cui anche molti cattolici guardano come contromisura al disastro educativo della scuola statale? E quanti cattolici sono attratti da questo metodo spiritualista senza considerare punto la matrice di tale pensiero? Steiner interpretò Cristo a suo modo, ma non basta nominare il nome del Figlio  di Dio per accreditare il veleno. L’arte influenzata da tale matrice ha potuto anch’essa, allo stesso modo della psicanalisi, accreditare presso le menti l’occultismo e le discipline più avverse al Cristo stesso. Ed infatti,  a mio avviso, l’affermazione, diciamo bonaria, del Carli a pag. 39 del li- bro, secondo il quale gli artisti vanno guardati con comprensione perché non sono speculativi e si muovono in campi a loro estranei, alla luce an- che di quanto emerge poi nel fluire del suo discorso che arriva ad esplorare l’influsso gnostico nell’arte contemporanea passando anche per l’astrattismo, non può essere accolta senza rischi. L’artista è un uomo e certamente come tutti può sbagliare, ma è pur sempre libero e a maggior ragione è credente deve necessariamente porsi delle domande e comunque farsi illuminare dallo Spirito Santo; ciò che fa impressione è il contagio che si è verificato fra gli stessi artisti fino ad arrivare ai giorni nostri in cui spudoratamente si parla di alchimia nelle kermesse prestigiose dedicate all’arte, vuoi visiva, vuoi letteraria ecc., come sottolinea giustamente il Carli. La relazione del Carli termina, tuttavia, con la constatazioùùùùùùùùùne di una sorta di ribellione al nichilismo artistico contemporaneo tra alcuni studiosi illustri che, pure loro, scovando la matrice gnostica nell’arte contemporanea, si sono accorti di un grande assente: Dio.

Don Ennio prosegue il discorso sull’arte contemporanea arrivando a smascherare il Surrealismo di Breton: nulla di nuovo rispetto a ciò che è emerso per il futurismo, cioè sempre della stessa matrice occultista si può parlare, in più con il Surrealismo si accentua la dimensione magica dell’esoterismo, molti nomi di artisti compaiono nell’elenco. L’autore affer- ma senza mezzi termini che Breton ha seminato e quindi preparato il campo per la nascita del movimento del ’68, un movimento che darà espressione alla rivolta contro la realtà preparata appunto dal Surreali- smo. Non viene risparmiata dall’indagine la connessione tra eros e gnosi spuria in cui l’autore non si tira indietro, neanche nel linguaggio a volte un po’ forte, nel descrivere la discesa verso il fondo della concezione del- l’amore: scardinati i vincoli del reale e della morale tutto è permesso, così anche l’arte si fa tramite dell’espressione grottesca della prostituzione e della pornografia, senza parlare dell’omosessualità e del transgender. Certamente rilevante è la messa in chiaro da parte dell’autore della maggiore causa del decadimento attuale: la donna e la sua adesione alla nuova cultura nichilista che la vuole protagonista maschile della società. L’autore vede in questo il massimo disegno di sabotaggio contro la religione cristiana manovrata dalla massoneria («Impadroniamoci della donna (nella perversione) ed avremo il mondo in mano»; piano massonico ottocentesco).

Ma fra tutte le arti qual è quella che ha influenza maggiore sulle altre?  per l’autore non c’è dubbio che sia la letteratura, perché quando l’intuizione estetica prende la strada della forma verbale scritta, quindi riesce ad essere espressa, la strada è aperta alla rappresentazione da parte delle altre branche artistiche. Ecco perché in uno dei primi capitoli, il quinto, l’autore con il suo solito sguardo penetrante ed allargato prende in considerazione l’influsso gnostico inquinato nella letteratura a partire dalla Spagna, passando per la Francia, per il Nord Europa e quello dell’Est per approdare infine in Italia. Tanti nomi famosi europei cadono sotto la scu- re gnostica con diverse sfumature (neopaganesimo, simbolismo occulto ecc.): Salinas, Garcia Lorca, Saramago, Carlyle, Cocteau, Camus, Bataille, Proust, Tzara, l’irlandese Yeats, Rilke, Kafka, Dostojeski, Tolstoj, Soloviev. Ed in Italia? Leopardi, Carducci, Pascoli, Fogazzaro. Il prof. Paolo Mariani aiuta l’autore a focalizzare la decadenza gnostica nella letteratura italiana e rileva che nel Novecento, a differenza dell’Ottocento in cui esoterismo e massoneria erano particolarmente diffusi, la gnosi non è più tanto legata a correnti di pensiero ma è come se scaturisse naturalmente; rispetto a quello che si diceva poco più sopra e cioè il fatto che il succo gnostico è stato psicologicamente e culturalmente “sdoganato” ed ha in- vaso le menti, il Mariani afferma che «simile modello di pensiero sia una germinazione naturale, logica, in una mente che non crede più in Dio» (pag. 54). Non senza sgomento si giunge alla fine della relazione di Mariani: Saba, Quasimodo, pascoli, pasolini, Benedetto Croce, Elsa Morante, Dacia Maraini insieme ad altri sono denudati nelle loro influenze gnostiche e ciò non può non far riflettere sul fatto che l’insegnamento ai gio- vani della letteratura italiana nelle scuole sia ancorata all’esaltazione di tali scrittori. Chi avrà avuto il privilegio di comprendere le matrici delle loro opere d’arte all’interno di un liceo o di un’università? Lo stesso relatore afferma che esiste un’ignoranza diffusa sulle muse ispiratrici di tali pensatori e scrittori. Il tutto sembra assumere l’immagine di una grande propaganda/ubriacatura che ha preso vita per se stessa e non riesce più a fermarsi e a chiedersi quale sia la sua origine.

Per fortuna dopo questo quadro desolante si arriva a respirare un po’ di aria sana, quando l’autore ci introduce nell’arte cristiana e nel farlo specifica ancora meglio il potenziale errore a cui l’artista può essere esposto nella sua ricerca della forma da dare alla sua opera. Il rischio è quello di trovare piacere nella ricerca stessa, anche della materia sensibile, con la conseguenza di autoreferenziare se stesso all’oggetto che non è più tale ma diventa l’assoluto. La Chiesa chiama a sé gli artisti con l’intento di preservarli nella continua tensione verso l’Infinito e di evitare le cadute nel materialismo e nell’idolatria dell’opera stessa. Don Innocenti afferma che il rimedio primario, tuttavia, è avere la consapevolezza che il peccato è una responsabilità di scelta della persona e che il Redentore tramite la sua Grazia ci redime dai fallimenti e dalle cadute. Emerge chiara la visione cattolica del mondo: la materia, la creazione è buona in sé perché fatta da Dio; come non ricordare le parole di Gesù quando dice che non è il cibo che si mangia a contaminare l’uomo ma è ciò che esce dal cuore umano che insudicia tutto? Certamente è più facile adottare una visione del mondo pessimistica a priori in cui la responsabilità del peccato è sempre demandata all’esterno e così ci si illude di mettere a posto i tasselli della propria esistenza; invece l’abbraccio della fede cattolica esige il portare  la croce, ossia la volontà di combattere il male assumendo su di sé l’onere della correzione e dell’istruzione ai più alti principi e alle più alte aspi- razioni. L’arte non può forse farsi essa stessa carico di tutto ciò? L’artefi- ce, sembra dirci Osvaldo Lilliu nella sua relazione inserita in questo capitolo, è Gesù stesso che volutamente ha lasciato le sue sembianze impresse affinchè potessero essere fatte oggetto di venerazione e di conoscenza. La genesi e la storia delle vere icone di Cristo sono complesse e misteriose, infatti Lilliu nel tracciare un possibile filo cita fonti che fanno emergere alcune contraddizioni; ad es. parlando della Sindone riporta la tradizioEdessa che, però, non è attinente all’immagine impressa nella Sindone di Torino, che mostra un uomo morto lacerato e sanguinante, ed anora, parlando del volto della Veronica, afferma che l’immagine è perfettamente sovrapponibile a quella della Sindone, tuttavia, nel proseguio di questo filo conduttore, ad un certo punto nella storia sembra emergere una nuova immagine differente da quella della Sindone (Cristo con gli occhi aperti) che viene essa stessa chiamata Veronica prima Lateranense, poi Vaticana e poi fatta coincidere con il volto di Manoppello. Al di là di queste contraddizioni, questa relazione cerca di esaminare l’atteggiamento che l’osservatore di un’opera d’arte sacra dovrebbe avere prendendo come tema quello del Sacro Lino. E colui che scrive espone un processo riflessivo sull’immagine della Sindone rilevandone anche qui le contraddizioni. L’esposizione, tuttavia, insiste in una sua parte un po’ sospettosamente sull’ambiguità e sul dualismo (tutto da verificare) che emergerebbe da questa immagine sacra: Lilliu arriva, partendo dal positivo/negativo fotografico della Sindone, allo Yin/Yang della filosofia cinese affermando che nella Sindone appunto ci sarebbe la agognata unione degli opposti. Ma non è questa la suprema teoria gnostica contro la quale tutto il libro è impostato? Vade retro (come dice lo stesso Lilliu nel suo testo) dalla mentalità che prova un gusto quasi morboso ad elucubrare sui dualismi e le possibili sintesi, anche se poi la sintesi finale del discorso è comunque il Cristo. Un credente che osserva il Sacro Lino invece di contemplare una contrapposizione di opposti, solo perché la scienza non riesce a capirci nulla, o l’incertezza e l’ambiguità, ringrazierà Dio per una certezza che è quella che il Signore Gesù ha voluto lasciarci: la sua impronta. Non esiste positivo/negativo per la fede, esiste il Cristo Risorto, esiste semmai solo il Bene. Lilliu poi corregge in ultimo il tiro del suo discorso riportandolo su binari più condivisibili come quello della necessità della fede per interpretare l’immagine sacra che sia creata da mano d’uomo o che non lo sia, come nel caso della Sindone.

Dall’immagine sacra di Gesù affrontata dal Lilliu, l’Innocenti si muove verso la musica. Di notevole spessore e profondità la sua introduzione al ruolo della musica nella liturgia e la sua spiegazione di come possano il canto e la musica divenire preghiera. Ahimè, anche in questo settore artistico c’è stato un mutamento peggiorativo: la musica da veicolo privilegiato per l’unione con l’Infinito è scaduta in puro mezzo socializzante e sentimentale perdendo qualsiasi afflato mistico. Cambiando la liturgia, a seguito della secolarizzazione della Chiesa, a causa anche di un’eccessiva prepotenza della presenza laica, cambia la musica, in tutti i sensi. La passione per la musica dell’autore emerge dalle sue note autobiografiche che fanno luce sugli stadi della sua riflessione sull’evoluzione musicale nella Chiesa. È pienamente comprensibile anche per un profano l’iter evolutivo della musica sacra cristiana che l’autore presenta: l’espressione musicale dei primi cristiani risente delle influenze orientali, se pur epurate da elementi pagani, e si risolve in musiche per così dire più spontanee, mentre l’arrivo della filosofia pitagorica del suono associato al numero, accolta da Sant’Agostino e da lui cristianizzata, apre la ricerca estetica ed insieme misticheggiante nel campo della composizione musicale liturgica: si ricerca la connessione del suono con il sentimento con l’intento di produrre nell’animo del credente una risposta spirituale precisa. Inizia l’era della musica più partecipata, in cui anche il fedele si sente aiutato a rispondere al suono con la sua parola o semplicemente con il suo ascolto più intimo. Ad un certo punto della storia, però, si ha la frattura che divia di questa frattura sia da ricercarsi nel crescente protagonismo dei musicisti o dei cantori: «la musica è goduta sempre più per se stessa, da chi ha tempo per godersela» (pag. 81). Alla musica sono dedicati altri due capitoli in cui viene approfondito il panorama evolutivo musicale; il passaggio dal canto gregoriano (monodia) alla polifonia rinascimentale e all’approdo alla musica moderna. Interessante sapere che la profanazione della musica sacra fu combattuta da San Pio X e Pio XI tramite l’istituzione di scuole apposite; tuttavia la continua e buona intenzione cattolica di armonizzare le alte aspirazioni espresse in musica e la limitata comprensione del popolo ha portato ad allargare per così dire troppo la manica. Il canto gregoriano, fulcro dell’attività monastica, sparì e al suo posto subentrò il canto corale con l’introduzione di strumenti musicali anche indigeni (il tam tam, il djembe ecc., nota mia). Si apprende dal testo che la Santa Sede nel 2004 si oppose decisamente a questa deriva ma senza risultato. Dall’analisi del fenomeno e dalle considerazioni dell’autore emerge che solo nella liturgia della Chiesa la musica diven- ta quasi oggettiva, nel senso che assume un significato universale, perché ispirata e interpretata alla luce dei dogmi e perché è indirizzata a Dio. Molto significativa risulta essere la contrapposizione della soggettività dell’interpretazione artistica, ancor più influente nell’arte della musica che passa anche attraverso un interprete, e l’universalità del canto liturgico. Quando l’autore asserisce che il canto gregoriano è scaturito dal sospetto che i primi monaci avevano sulle passioni ed emozioni umane a causa di un’erronea interpretazione del mondo materiale, viene spontanea la domanda: ma se i monaci sbagliavano, come mai ora con l’influsso umanistico e soggettivistico nella liturgia molto spesso l’uomo e la sociaità hanno preso il posto dello stesso Dio? Se i monaci erano guardinghi sulle passioni, come mai ora la musica nella liturgia non lascia spazio al silenzio e non lo facilita? È anche vero che nel mondo odierno bisogna trovare una via di ritorno alla musica sacra; certamente il clima culturale non è più quello dei primi monaci. Quando nel libro si afferma: «Vediamo diffondersi nell’Ottocento romantico un’euforia musicale che […] diventa ebrezza pseudo mistica, come se la musica sia quasi un sacramento a buon mercato che effettui tra i partecipanti al fatto musicale la comunione con lo Spirito Assoluto (inconscio, indeterminato gnostico), la nega- zione della coscienza del reale quotidiano, l’immedesimazione fantastica con l’universo sentito come un mare sensuale in cui immergersi, insom- ma: la musica come pre-nirvana, come metafisica, come traguardo creativo originario e divino, una religione redentrice che porta al di là della logica» è naturale pensare all’oggi, in cui questo influsso continua, in primis nella musica indirizzata ai giovani, che diventa idolo o mezzo per sfogare le proprie pulsioni grazie anche alla grandissima disponibilità di mezzi elettronici per ascoltarla nel formato digitale, ma continua anche nella rinascita pagana dal ’68 in poi, che strizza l’occhio alle pratiche sciamaniche in cui la musica ritmica (tamburi) facilita l’estasi dello stre- gone che in tal modo cerca di mettersi in contatto con l’altro mondo. È il trionfo della musica ad uso e consumo. È pur vero che, e l’autore spende diverse parole su questo aspetto, la musica più di qualsiasi altra arte lascia molto spazio alla partecipazione del fruitore e, per così dire, vista la sua immaterialità, è facile oggetto di reinterpretazione, che a sua volta dipende dall’emotività del momento, e l’intento che il musicista mette nella sua opera potrebbe anche non sortire la stessa assonanza in chi lo ascolta: per es. don Innocenti cita diversi autori e ne espone gli orientamenti spir tuali, tuttavia chi ascolta potrebbe non conoscere affatto i retroscena di vita per es. di un Debussy e quindi minimamente sospettare una sua deriva gnostica. Comunque si entra in assonanza con ciò che si è sperimentato, per tal motivo è molto probabile che chi possiede una mentalità gnostica sia attratto da una musica che sente sua. In un paragrafo dedicato al rapporto tra musica e mistica l’autore afferma proprio che la tensione spirituale di un autore emerge dalla sua opera: un musicista cattolico attirerà anime cattoliche perché ci sarà comunicazione, essendo l’opera incentrata su Colui che unifica tutti i credenti. La musica, e di questo ne sono con- vinta, è la più soggettiva delle arti ed è quella meno controllabile: i monaci, che probabilmente capivano più di noi dell’animo umano, sapevano perfettamente che per esprimere il sacro la musica deve essere poco sog- getta ai sentimentalismi spiccioli e deve essere rigorosa. poi nulla toglie che personalmente ognuno possa essere ispirato ad alti pensieri su Dio da una musica profana; questo, però, quando succede, è il primo passo verso un’ascesa che non si accontenterà più di assonanze momentanee, ma cercherà una sonorità sempre più semplice, sempre più tendente al silenzio. L’anima orante è un’anima silenziosa.

L’autore si propone di portare delle possibili soluzioni per un ritorno della musica sacra nelle Chiese: innanzitutto la riscoperta della parola che ha significato, ad immagine del Logos divino, e poi la riscoperta del simbolismo che in sé può essere veicolo di sublimi aspirazioni e visioni. Il tramite di tutto questo è l’eros orientato a Colui che è Amore, che respinge naturalmente l’eros inquinato, anch’esso derivante dalla gnosi spuria. L’eros inquinato è la passione incontrollata che ricerca la soddisfazione del momento. La gnosi pura, invece, è alimentata dall’eros puro, ossia l’amore per la Verità in persona, Cristo Gesù. La sobrietà e la linearità della Liturgia cattolica è il risultato della ricerca umana guidata dallo Spirito per avvicinarsi sempre più alla sobrietà e alla divina eleganza e pu- rezza del Divin Maestro che la musica dovrà seguire. Don Ennio cita spesso l’indagine sonora degli antichi che associavano il suono ad un or- dine armonico delle cose. Così era e così dovrà essere, sembra suggerirci la riflessione dell’autore. La cultura musicale di don Ennio Innocenti è impressionante; si muove tra i colossi della musica romantica (Wagner, Schönberg, Debussy, Stravinskij ecc.) esponendone gli influssi culturali rintracciabili nelle loro opere con una facilità e maestria che testimoniano non solo la passione dell’autore per la musica ma anche la sua profonda riflessione maturata in chissà quali e quante occasioni di ascolto e di studio. Colossi della musica che nelle scuole italiane vengono esaltati senza presentarne i contorni, qui vengono ricollocati nella loro giusta posizione; per il lettore che possiede una conoscenza musicale di tipo scolastico la lettura di questi capitoli si presenta come un’alfabetizzazione musicale! La trattazione dell’autore dell’argomento musica si conclude con un ex- cursus sull’evoluzione del canto e dell’uso degli strumenti nella Liturgia. Emerge che il rapporto con la musica in ambito sacro non è mai stato pri- vo di intoppi, sospetti e rifiuti; i papi erano ben consapevoli delle derive che una certa musica (edonistica e passionale) poteva portare, infatti la Chiesa vigila anche ora, sebbene i risultati di tale vigilanza non si veda- no. L’autore prende posizione sul canto gregoriano non ritenendolo più idoneo alla sensibilità culturale della gente, tuttavia non si può negare che in Chiesa durante le celebrazioni vengono cantate delle canzonette e strimpellate chitarre; non si può negare che il coro in Chiesa detta legge persino al sacerdote e diventa il protagonista della Liturgia; non si può negare che il canto si impone anche nei momenti in cui sarebbe opportuno avere solo un sottofondo musicale o ancora meglio il silenzio (distribuzione dell’Eucarestia); non si può negare che questo tipo di musica abbia aperto le porte alle danze con il Vangelo in mano, cosa che succede anche in cattedrali e non solo in chiesette di periferia. Non si dovrebbe dimenticare il contesto: un fedele che entra in un santuario si aspetta di sentire un canto solenne e sacro, ben venga il canto gregoriano. perché non desiderare che le nostre chiese più comuni tornino a somigliare nello spirito ai santuari? Non sarebbe forse necessaria una rieducazione musicale partendo da zero? Sulla profonda decadenza, comunque, don Ennio dice tutto: Gesù e gli Apostoli cantavano, l’attuale papa non canta. Forse meglio il silenzio delle canzonette…

Il viaggio nelle arti prosegue approdando all’architettura: «l’architettura nasce dalla coscienza di essere nel mondo» (pag. 157) dice mirabilmente l’autore, e fin dalle prime pagine emerge il legame forte tra architettura (l’architettura cristiana nasce a Roma con l’assimilazione del messaggio evangelico alla cultura latina) e rito, tanto è vero che al decadere di quest’ultimo a ruota decadde anche l’architettura, come si vede ai giorni nostri in cui architetti di grido, evidentemente non cattolici, progettano e costruiscono chiese secondo la loro fantasia o secondo dettami di dubbia matrice. L’architettura sacra è oggi brutta, non funzionale al suo scopo, che l’autore ci ricorda essere quello di aiutare l’uomo ad elevarsi a Dio. Il dramma dell’architettura è quello di essere legato all’economia e alla politica, vuoi per la mole di investimenti necessari, vuoi per lo spazio (che è uso del territorio, quindi soggetto a regole anche politiche) più o meno ampio che occorre. pochi sono, a detta dell’autore, gli architetti cattolici e l’esigenza tassativa di esserlo per edificare il tempio sacro cattolico è supportata da ciò che Dio stesso dice nella Bibbia e che l’autore cita: i passi del testo rimandano anche all’auspicabile forma del tempio; Gesù è il tempio, così San Paolo dice che Tempio Santo è il credente, così don Ennio rileva che «la struttura basilicale, certamente armonica, fu resa immediatamente significativa dell’umano evidenziando i bracci del cor- po, con allusione all’Uomo Perfetto in offerta di Sé, mentre l’accentua- zione costante del segno circolare (abside o cupola) rinviava eloquente- mente al divino» (pag. 157). Ma oggi si costruiscono chiese a cubo (Foligno)…Da sacerdote l’autore riconosce le colpe dei vescovi ed in generale del clero nell’attuale decadenza dell’architettura sacra; come non essere d’accordo quando egli stronca alcune decisioni di far chiudere chiese anche belle o di evitare la costruzione di nuove perché la chiesa deve essera la chiesa dei poveri! Il clero sta perdendo la conoscenza delle arti; tuttavia è citata la scuola di Mons. Vigorelli (architetto) a Milano, molto attiva nel coinvolgere i nuovi architetti nella ricerca di nuove soluzioni per rianimare l’architettura sacra. Fa riflettere questa decadenza architettonica, in quanto quest’arte è forse tra tutte quella che più immediatamente rimanda all’Infinito. Il desiderio dell’immensità ben si sposa con lo slancio verso l’alto degli edifici sacri; putroppo il desiderio di grandezza si risolve quasi solamente in edificazione di grattacieli, quindi edifici profani, in cui l’estrosità e il non senso la fanno da padrone, mentre ora nell’edificio sacro si osserva l’appiattimento… a terra! parlando di architettura l’autore non poteva non citare quella massonica, visto che i muratori erano anche costruttori; egli ci porta in America e ci mostra come le stesse piante di città come Washington siano concepite sotto ideologia massonica, quella della squadra e del compasso, rilevabili proprio come figure emergenti dalla topografia; che dire poi del pentagono? Anche Roma si scopre non essere esente da tale impronta diabolica con la progettazione del rione prati a fine ‘800, in cui la finalità del progetto (non c’è che dire!) era quello di oscurare la visuale della Cupola di San pietro. Sempre a Roma  si ha un esempio di come l’architettura sacra sia oggetto di trame politiche ostruzionistiche; sta di fatto che nella Città Eterna il numero di chiese è diminuito e una buona fetta di residenti non ha luoghi a portata di mano in cui dedicarsi al culto. Dal dopo guerra in poi Roma ha visto la sua espansione in rottura con il passato, come se fosse stata inferta una ferita. Da chi, ci si può chiedere? Forse dalla degenerazione della democrazia o forse dal frutto giunto a maturazione del pensiero liberal-democratico di matrice massonica. All’autore sta a cuore un’architettura che risponda alle esigenze del culto e quindi un’architettura che parta dal basso, che coinvolga i fedeli nell’edificazione della loro chiesa, pertanto si oppone decisamente a progetti calati dall’alto e che spesso sono commissionati  ad architetti non cattolici. Davvero condivisibile la sua presa di posizione. Il trattato sull’architettura termina con una relazione di Ciro Lomonte, molto ampia, dettagliata, ma comunque molto scorrevole e piacevole da leggere, in cui vengono ripercorse le tappe che porteranno alla divisione tra arti e artigianato nel Medioevo; ma non solo, viene dedicato ampio spazio a comprendere la nascita dell’arte moderna e dell’odierno design. La conclusione della relazione fa ben sperare perché testimonia la nascita di una scuola, la Monreale School of Arts & Crafts, dedita alla rinascita dell’arte partendo dalla riscoperta dell’artigianato; insomma un ritorno al- le origini proiettato nel futuro, come dice lo stesso relatore.

La pittura e i movimenti che ne hanno via via caretterizzato l’espressione, pur avendo un capitolo dedicato, sono citati spesse volte in tutta l’opera, ciò a conferma del fatto che la corruzione gnostica della cultura ha intac- cato profondamente quest’arte ed è quella che ha rotto in maniera più pa- lese con la cristianità. Don Innocenti mette in chiaro come alla rappresen- tazione storica dei fatti evangelici, anche sapientemente reinterpretati, si sia sostituita una rappresentazione fuori dalla realtà, sganciata dall’espe- rienza comune (il riferimento è l’arte astratta). L’autore addita la rottura radicale al Manifesto di Norimberga di matrice luterana. potrebbe non trovare piena adesione l’affermazione: «Alla radice la mentalità gnostica è in antitesi con la realtà obiettiva, specialmente con la realtà materiale» (pag. 203): se il pensiero gnostico ha avuto così successo ed è riuscito a corrompere tutte le arti (come l’opera dimostra) è perché è ben ancorato all’osservazione di come appare il mondo, e siccome nel mondo c’è il bianco ed il nero, cioè effettivamente esistono i contrari, esso è stato adottato come pensiero esprimente la realtà oggettiva, basato sull’esperienza così come si presenta. La gnosi alla fine diventa materialista per- ché rende un dogma l’apparenza delle cose. La realtà a cui si fa riferimento nel cristianesimo è, invece, la realtà del Regno di Dio che non è ancora visibile sulla terra ma che l’uomo può contribuire a disvelare  solo se accetta la realtà di Dio, cioè la Sua esistenza, il suo Essere, solo se accetta la Buona Novella, ossia che Dio ci ama e ha in mente, per chi corrisponde al suo Amore, il godimento del Bene, della Realtà vera che è Amore e pienezza senza ombre né chiaroscuri. A proposito di ombre l’autore parla della crisi della pittura europea che è «radicalmente crisi spirituale, disorientamento esistenziale, oscuramento religioso» (pag. 205); anche se viene sottolineato che molti pittori, pur in polemica con il passato definito oscurantista, non si distaccano completamente dal sacro, anzi alcuni faranno professione aperta di fede cattolica (su tutti Cezanne). Il sussistere, nonostante la profonda crisi spirituale in atto, di una ricerca di rappresentazione del sacro, fa ben sperare in una possibile rinascita della pittura, perché anche in letteratura molti risvegli su questa profonda crisi sono già iniziati. Don Innocenti focalizza la sua attenzione su pittori famosi appartenenti al surrealismo, corrente «intimamente connessa con il freudismo, il comunismo e anche con l’esoterismo» (pag. 209); la presentazione dei tratti distintivi di questo movimento fa pensare alla scimmiot- tatura del Regno di Dio: con l’ausilio di droghe e di trance indotte questi pittori cercavano di superare la realtà attraverso la fantasia, così il regno fantastico diventa alla fin fine il nulla indeterminato di matrice gnostica  in cui ogni distinzione si annulla e tutto è fuso. L’esposizione dell’autore, però, non stronca i singoli artisti, anzi si apprezza lo sforzo di ricercarvi una reminiscenza spirituale anche cristiana che rende forse giustizia di un travaglio e di ricerca interiori spesso superficialmente trascurati. Dal particolare don Innocenti torna alla visione generale dell’evoluzione della crisi in pittura dall’Ottocento fino ad oggi, argomentando tutti gli influssi gnostici con riferimenti precisi ad opere e ad artisti, e verso la conclusione afferma: «quel che già si vede è una deriva distruttiva coinvolgente la stima della vita artistica, del corpo umano, della spiritualità umana» (pag. 223). In particolare viene messa in evidenza la strumentalizzazione dell’arte a fini politici, economici e culturali, così evidente nelle mostre contemporanee in cui la partecipazione degli artisti è schiava appunto di tale manipolazione. Questo aspetto sembra essere molto evidente nell’attualità come se questa situazione fosse l’approdo della decadenza iniziata appunto nell’800. Andando oltre nella lettura viene da piangere nel conoscere la blasfemia di tanti artisti che vengono pure insigniti dei premi più ambiti. «La sfrenatezza gnostica usa l’arte per scatenare l’odio contro il sacro» (pag. 225) e la propaganda mediatica incita alla fruizione dell’arte invitando i giovani a frequentare queste mostre: forse la gnosi non è ancora soddisfatta (come ironizza l’autore) e vuole sempre più anime ormai ridotte ad automi incapaci di schifarsi di fronte a tanto scempio. Quante lacrime. Ecco che allora è ben accetta l’iniziativa dell’autore di chiarire molti equivoci, ossia di non prendere per veri accostamenti mistici di opere che di cattolico e realmente mistico non hanno nulla. L’autore ci vuole mettere in guardia, come dice un proverbio: «uomo avvisato mezzo salvato», dalla gnosi, per meglio dire eresia, camuffata da afflato mistico, e cita nomi da tenere a mente per non farsi rovinare; l’appello non è ri- volto solo ai fruitori ma anche ai tanti prelati che alimentano l’equivoco accreditando artisti di dubbia fede se non dichiaratamente atei.

Proprio a questo punto del libro si trova esplicitamente la ragione del titolo dell’opera e della necessità di un’arte sublime, scrive l’autore: «un vero cattolico non può accettare né la morte dell’arte, né la sfiducia nella conoscenza intelletuale (tutte bestemmie apertamente proclamate dagli gnostici contemporanei) perché queste negazioni implicherebbero la ne- gazione di Dio e dell’uomo stesso. Ma anche la riduzione dell’arte a mera interpretazione soggettiva e mentale porterebbe all’anarchico solipsi- smo dialettico e alla sofistica distruttiva. Certo la bellezza non è una forma già pronta, implica l’opera umana, e questa non può non fissarsi sul- la sola forma mentale per non esaurirsi nell’astrazione. Quel che occorre è sicuramente l’impegno elaboratore dello spirito che vive nella concre- tezza e unifica tutte le facoltà nell’ascensione etica verso l’infinito Perfettissimo, fonte di perfezioni sperimentabili» (pag. 227); ed ancora l’au- tore cita Giovanni paolo II: «L’arte non apre all’inconscio ma al più conscio, porta l’uomo a se stesso e lo fa essere più uomo» (dal discorso agli artisti alla Fenice di Venezia, 1985).

Anche nella scultura si ritrova lo stesso percorso decadente, forse meno turbolento almeno in Italia, però sta di fatto che l’autore ci dice che dal ‘900 in poi l’arte scultorea ha perso il suo scopo: se nel Medioevo l’og- getto della rappresentazione erano i moti d’animo, ora, nell’attualità, l’oggetto non c’è più e, se c’è, è primitivo, tribale. È una regressione tota- le a causa, anche, dell’importazione dall’America di stili già corrotti presentati molto bene nel capitolo dedicato alla pittura. Il capitolo dedicato alla scultura è arricchito da una interessante relazione di Carlo Fabrizio Carli in cui emerge sorprendentemente che esistono ancora tanti scultori italiani e che quasi tutti hanno dedicato almeno una loro opera al sacro cristiano; molte opere si trovano nelle chiese o in Vaticano. Consolante e promettente; la scultura, forse, è, fra tutte le arti, quella più ancorata alla tensione religiosa e quella che potrebbe rimanere indenne nell’attuale vertiginoso progresso dei mezzi tecnologici che sta stravolgendo tanti arti, pensiamo alla fotografia, al cinema, che hanno messo in grave crisi la pittura e il teatro.

E a proposito di teatro, un capitolo corposo ne esamina l’evoluzione. Don Innocenti in questo settore lascia volentieri la parola ad un esperto, Pietro De Marco, ma già nella sua breve introduzione si comprende che, pur esistendo un teatro italiano cattolico molto valido, si fa fatica a vederlo in scena, tanto essa è dominata dal teatro materialista, ed aggiungo edonista. Rispetto a questo basta osservare i cartelloni pubblicitari delle opere teatrali per accorgersi che vi primeggia l’attore (di solito con monologhi) e quasi mai il titolo di un’opera; forse perché l’opera non c’è ed è rimasto solo l’attore a recitare se stesso. Nel testo si legge che i padri avevano ti- more del teatro per le possibili complicazioni psicologiche che l’attore poteva subire nell’interpretare un personaggio; ebbene qui ora siamo arri- vati al massimo: l’attore è diventato un dio fuori e dentro la scena e ci crede! Nonostante queste derive, l’autore ricorda come il teatro è stato usato con successo come mezzo catechetico grazie alla sua direttività e al suo coinvolgimento con il pubblico.

Il libro di don Ennio Innocenti vuole essere completo, pertanto non poteva mancare una trattazione del cinema, in quanto è l’arte più popolare  del momento ed è quella che meglio ha recepito (e recepisce) le innov zioni tecnologiche. L’autore ammette il grande impatto che le immagini  in movimento ed i suoni associati hanno sul pubblico. Anche la scuola ha adottato come mezzo di insegnamento la proiezione di video in tutte le materie, perché gli esperti dicono che facilita l’apprendimento. Al di là di questo è interessante scoprire che pure i papi si sono accorti della potenza di quest’arte, tanto che già Pio XI nel 1929 pubblicò un’enciclica (Divini ilius Magistri) in cui evidenziava la responsabilità morale del cinema, proprio pensando all’educazione cristiana dei giovani; altre esortazioni papali riguardano la vigilanza che si deve tenere sui film e in particolare sulle rappresentazioni incentrate sul male (così numerose di questi tempi). Dal riconoscimento della potenza di quest’arte nascono iniziative ecclesiastiche per far sì che il mezzo venga utilizzato per uno scopo cate- chetico (sale parrocchiali adibite a cineforum ecc.). Molto suggestiva è la presentazione fatta dall’autore del ruolo del regista; il vero artista (e non tanto gli attori) che si riconosce tale deve avere una grande maestria in più settori per mettere insieme un’opera che abbia uno sviluppo organico, partendo dall’idea forte (che deve essere sviluppata e mantenuta fino alla fine) per poi arricchire, con l’apporto degli attori e degli altri collaboratori, di particolari e sfumature che avranno il ruolo di meglio preci- sare e proporre il tema del film. Un bravo regista è colui che rimane aperto allo sviluppo dell’idea originale pur rimanendo ad essa fedele fino alla fine. Il capitolo si avvale del contributo di alcuni relatori che focalizzano la loro attenzione su registi famosi (Bergmann, Boyle, Cameron ecc.), oppure sulla tematica magico/esoterica che imperversa nella produzione cinematografica odierna; ecco cosa dice Mario Dal Bello presentando il suo contributo, partendo dall’esempio del film “Il paradiso può attendere” (1979) in cui reincarnazione, angeli e quant’altro la fanno da padrone: «ne sortisce evidentemente un’interpretazione filosofica dell’esistenza piuttosto eclettica, o per meglio dire, sincretista. Una forma nuova di conoscenza – se si vuole essere più precisi, di gnosi – in cui elementi di luce, di tenebra, di sapienza esoterica o di esaltazione religiosa della scienza si contrappongono ad altri tentativi di ricerca spirituale autentica, di senso dell’infinito, che il cinema sa raccontare. […] Il livellamento che la nostra epoca tenta con successo di esprimere fra tutte le credenze, nella convinzione che in fondo esse siano tutte uguali, non costituisce solamente un frutto della globalizzazione, ma esprime una determinata concezione della vita […] che rende ogni forma di sapere simile alle altre» (pag. 293); questo messaggio nei film passa e gli spettatori vengono educati a tale contesto. Alcuni film vengono ideati apposta per portare questo messaggio ed altri forse ne sono veicoli inconsapevoli, tanto è divenuto normale e scontato questo pensiero magico/esoterico/ spiritualista, diciamo new age ma alla fine ateo. Molto interessante ed istruttivo l’intervento di Marrocchini che si fa questa domanda: «È possibile una catechesi per film?» e si risponde in modo originale, rispolverando l’impostazione dei vecchi catechismi, procedendo a suon di virtù; per ognuna sceglie uno o più film che per trama e per possibili interpretazioni possono arricchire spiritualmente lo spettatore. La maggior parte  dei film nasce in ambienti non cristiani, tuttavia, per nostra fortuna, esistono registi che si fanno carico di un messaggio evangelico (e non solo Gibson con la sua Passione di Cristo o Jackson con la saga di Tolkien); certamente bisogna scovarli, perché la critica, come dice lo stesso Marrocchini, stronca qualsiasi film che “puzza” di cristiano, così come la distribuzione cinematografica, che è in mano al potere e che è contro i valori evangelici, e pertanto ostacola la circolazione e la visione di film cristiani. L’articolo è appassionante e merita di essere preso come punto di riferimento.

Questo lungo cammino fra le arti si conclude con gli ultimi due capitoli dedicati rispettivamente alla fotografia e alla moda; anche qui si vede il contributo di altri esperti che ne arricchiscono la comprensione. I contributi, mai banali, anzi sempre originali ed appropriati, aprono un mondo  su tematiche spesso conosciute solo dagli addetti ai lavori e dagli appassionati. per quanto riguarda la fotografia, c’è l’approfondimento di quest’arte, non solo dal punto di vista della sua nascita e sviluppo, ma anche del suo rapporto con la realtà. Manuela Sain Colombo narra al lettore, per es., i rapporti tra fotografia e potere, tra fotografia e giornalismo, riflettendo anche su un uso cristiano di quest’arte; c’è persino una carrellata dei più noti e bravi fotografi mondiali. Si evince dalla trattazione che la fotografia più in voga del momento sia il reportage, ossia la fotografia documentaristica, specialmente quella che ha per oggetto l’uomo soffe- rente (ma comunque speranzoso) in situazioni estreme (guerre, conflitti, vita quotidiana). La fotografia, grazie alla diffusione dei mezzi digitali, è diventata alla portata di tutti, forse per questo essa è un’arte sottovalutata. Bellissimo e poetico l’articolo che conclude il capitolo sulla fotografia scritto da un fotografo che condivide con il lettore la genesi delle sue opere e delle sue scoperte: un viaggio affascinante che fa apprezzare l’artista fotografo e fa nascere il desiderio di imitarlo (almeno per chi è appassionato del genere).

Si diceva la moda: le parole usate in questo ultimo capitolo sono forti, come forte è il rimando a Fatima attraverso la profezia di Giacinta, riguardo alle mode che offenderanno Gesù. Il vestito ha una valenza sociale e questa valenza è talmente importante che una moda corrotta corrompe l’anima più che tutte le arti di cui si è parlato, messe insieme. La moda, come il cinema, può trasformarsi in un potente veicolo di corruzione. Gli stilisti, come afferma don Innocenti, sono i divi del momento, prezzolati da chi vuole la distruzione dell’umanità. I giovani sono i primi ad essere sensibili alla moda, ma anche le donne in genere, che si vedono togliere la femminilità, soprattutto quella che le rende madri. Tutte le aberrazioni gnostiche che nella lettura del libro si profilavano nella mente del lettore, giunti qui prendono corpo nei vestiti e tutto ciò che ruota intorno alle maisons: omosessualità, androginia, fino ad arrivare alle mode che hanno inquinato la Chiesa. Sì, perché secondo le correnti moderniste anche la Chiesa si evolve e quindi deve seguire le sue mode che si esplicitano nei movimenti nati al suo interno per agevolarne il progresso. Giacinta cosa disse? «La Chiesa non ha moda. Gesù è sempre lo stesso».

Concludendo questa lunga dissertazione si può affermare con sicurezza che l’opera ha un intento didattico (l’autore ha premura di indicare ai lettori e potenziali artisti fonti dottrinalmente sicure per crescere nella gnosi pura) e alla fine il lettore comprende che questo libro era necessario. La gnosi spuria ha usato le arti per diffondersi; il libro dimostra che quest’operazione è ormai troppo avanzata, tuttavia la Speranza c’è, e risiede nella volontà, in ambito artistico, di rimettersi sulla giusta strada. Anche le arti devono diventare un campo di battaglia, della buona battaglia, ma per vincere una guerra è fondamentale conoscere il nemico. Artisti cosa aspettate?