
Presentazione del libro: Ilaria Ramelli, Gesù a Roma, seconda edizione integrata con appendice, Roma, Sacra Fraternitas Aurigarum Urbis, 2017, pp. 297
Roma, Salone del ricevimento dell’Almo Collegio Capranica, 27 ottobre 2017
Prima di entrare nel vivo della presentazione di Gesù a Roma, ritengo necessaria e doverosa una premessa riguardante l’autrice, la professoressa Ilaria Ramelli, la quale, nonostante la sua giovane età (anno di nascita: 1973), può vantare una strabiliante attività scientifica come ricercatrice, accademica e brillante studiosa di storia e letteratura antica, filosofia, teologia e filologia. Di grande spessore, per rigore scientifico e ricchezza di contenuti, è il cospicuo numero di pubblicazioni che portano il suo nome. Dal 1996 al 2013 oltre 730 tra libri, articoli, rendiconti, recensioni, schede enciclopediche, saggi etc. Possiamo quindi ipotizzare che in quest’ultimo quadriennio la mole dei suoi studi si sia ulteriormente accresciuta. Essere, pertanto, aggiornati in tempo reale sulla sua feconda e straordinaria attività scientifica è in pratica impresa alquanto ardua.
Numerosi sono poi i premi e i riconoscimenti che le sono stati attribuiti sia a livello nazionale che internazionale. Ancora giovanissima – all’età di 23 e 24 anni – ha ricevuto per ben due volte il premio Agostino Gemelli. Nel 2006 il premio internazionale intitolato al celebre grecista Marcello Gigante. Nel 2011 ha avuto l’onore di essere inclusa nelle grandi menti del 21° secolo (Great Minds of the 21st Century). Nello stesso anno e poi di nuovo nel 2014 il suo nome è stato inserito nella lista dei duemila intellettuali fuori del comune del 21° secolo (2000 Outstanding Intellectuals of the 21st Century) a cura dell’International Biographical Centre di Cambridge. Inoltre ha avuto otto menzioni for Distinguished Scholarly Service (per essersi distinta nella ricerca accademica: 2010; 2011; 2012; 2013; 2014; 2015; 2016; 2017). Senza contare il premio Marie Curie (è un riconoscimento prestigioso che porta il nome del premio Nobel per la fisica e la chimica della polacca Maria Skłodowska naturalizzata francese) e il premio per la ricerca che ha ricevuto dalla Fondazione Humboldt.
Seguo già da alcuni anni la produzione scientifica della studiosa per quanto attiene alla mia sfera di ricerca archeologica e di specializzazione in Archeologia cristiana. Tra i suoi contributi che ho più apprezzato, vorrei segnalare in primis il magnifico studio sulla cultura e la religione etrusca nel mondo romano, a partire proprio dalla romanizzazione dell’Etruria e dalla fine della sua indipendenza politica. Un testo che analizza il ruolo e l’influenza, dopo l’iniziale diffidenza e avversione dell’età augustea, che ebbe la cultura etrusca nel suo complesso e l’opera degli stoici etrusco-romani come Persio di Volterra e Musonio Rufo di Volsinii (quest’ultimo da lei interamente tradotto) nonché quella del padovano Trasea Peto nel milieu romano, che accolse con favore l’Etrusca Disciplina a partire dal principato di Claudio [1]. E l’incontro tra Stoicismo e Cristianesimo è un tema che troviamo inoltre ben sviluppato e argomentato in Gesù a Roma.
Altri contributi della Ramelli, che considero molto importanti per la storia del Cristianesimo e per l’Archeologia Cristiana sono alcuni dei tantissimi articoli pubblicati sulla rivista “Aevum”, tra cui lo studio sul cripto-cristianesimo nelle classi dirigenti romane del II secolo[2], sull’Epitaffio di Abercio[3], su Petronio e i cristiani[4], sul Senatoconsulto del 35[5], redatto nel 2004 assieme a Marta Sordi che ne ha curato l’introduzione, o ancora sulle testimonianze pagane e cristiane al tempo di Marco Aurelio con il cd. miracolo della pioggia[6]. Argomenti che ritroviamo quasi tutti ripresi in Gesù a Roma.
Mi preme evidenziare che gli studi della Ramelli inducono a una profonda riflessione su molti degli aspetti della storia del Cristianesimo in rapporto alla sua diffusione nel mondo romano e al confronto e all’interconnessione tra cultura pagana e cultura cristiana che, soprattutto nei primi anni dell’impero, salvo la parentesi neroniana a partire dal 62 e quella domizianea sullo scorcio del I secolo, dovette essere positivo, a parte alcune sporadiche prese di posizione anticristiane nel corso del II secolo. Il III secolo, a mio avviso, fa storia a sé, e per quanto riguarda il Cristianesimo, oltre al sincretismo religioso dei Severi e ai ben noti problemi di natura politica, economica, sociale e militare, è particolarmente ricordato per le tre grandi persecuzioni contro i Cristiani e l’organizzazione ecclesiastica (durante i principati di Decio, Valeriano e Diocleziano), che proprio in questo periodo era in piena espansione. Vale qui la pena solo rammentare, proprio riguardo al III secolo, che ben prima di Costantino l’editto di Gallieno sancì «la fine della illegalità formale della Chiesa; il cristianesimo non è più una religio illicita perché la Chiesa che lo professa è riconosciuta dallo Stato»[7].
Vi è da aggiungere, infine, che tutta la produzione scientifica di Ilaria Ramelli è caratterizzata da una puntuale e approfondita analisi ed esegesi delle fonti antiche e da un costante riesame degli studi precedenti. I testi antichi sono commentati e tradotti in prima persona dalla stessa studiosa, che conosce e padroneggia una ventina di lingue tra antiche (latino, greco, etrusco, sanscrito, ebraico, aramaico, siriaco, copto, etiopico, paleo-slavo, armeno, persiano) e moderne (conoscenza eccellente dell’inglese, francese, tedesco, spagnolo, russo, portoghese, olandese)[8]. I suoi studi hanno portato in molti casi a nuove scoperte, correggendo così precedenti interpretazioni (un esempio è quello del frammento porfiriano, riguardante il senatoconsulto del 35 di età tiberiana, sul quale vedi infra).
Ciò dimostra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che il revisionismo in campo storico (sia esso antico, moderno o contemporaneo), e più in generale in quello scientifico, è il sale di ogni tipo di ricerca. Non a caso un grande medievista come Franco Cardini ha acutamente affermato che «la storia o è revisione continua o non è nulla»[9]. Senza un costante aggiornamento e una puntuale rivisitazione su basi scientifiche delle nostre conoscenze, oggi saremmo ancora fermi alle vecchie credenze che qualificavano, ad esempio, la civiltà etrusca come misteriosa e la loro lingua incomprensibile o che i cristiani si rifugiavano nelle catacombe per sfuggire alle persecuzioni.
Questa breve premessa introduttiva riguardo all’autrice del libro è del tutto indicativa e insufficiente a illustrare le qualità di quella che, a mio avviso, si potrebbe definire una mente geniale (dotata tra l’altro d’invidiabile modestia) che apporta lustro alla ricerca italiana a livello internazionale. Sì, proprio quella ricerca, che, come ha a ragione affermato la stessa studiosa nell’intervista a “Il Giornale” (vedi nota 8), «in Italia è valutata meno di niente». Vi è a questo proposito da aggiungere che valenti studiosi come lei, molto spesso, procurano imbarazzo, se non fastidio, a talune invidiose e spocchiose baronie accademiche (siano esse pubbliche o private), gelose delle loro ‘paternità scientifiche’.
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Il libro oggetto di presentazione è una seconda edizione integrata con un’appendice sul Gesù storico e un aggiornamento bibliografico della precedente edizione del 2007, redatta in volume unico e comprendente il contributo di Ennio Innocenti con commento al testo lucano degli Atti degli Apostoli come prima parte, e quello di Ilaria Ramelli riguardante la prima diffusione dell’Annuncio cristiano e la sua prima ricezione in ambito pagano, a Roma e nell’Impero romano come seconda parte.
Il volume è composto di nove capitoli più la già citata appendice. È un excursus storico-letterario e di esegesi delle fonti antiche, che parte dall’arrivo delle prime notizie su Gesù a Roma, durante il principato di Tiberio, e procede nell’analisi delle opere di autori pagani e cristiani (romanzieri, storici, filosofi, apologeti: Seneca, Petronio, Tacito, Caritóne, Musonio Rufo, Porfirio, Celso, Apuleio, Giovenale, Tertulliano, Eliodoro, Achille Tazio, Mara, Eusebio, etc.), in cui il Cristianesimo e il suo fondatore sembrano ispirare tali racconti. Ciò testimonia in moltissimi casi l’interazione, come ho già ricordato, tra pensiero pagano e pensiero cristiano.
Particolarmente importante è il capitolo VII che tratta del primo arrivo a Roma di S. Paolo e la possibile conoscenza con Lucio Anneo Seneca, il grande filosofo e scrittore latino, che fu precettore di Nerone. All’interno ampio spazio è dedicato all’epistolario apocrifo tra Seneca e Paolo, che, come ha acutamente osservato la Ramelli: «presuppone non una conversione del filosofo, ma una reciproca conoscenza fra Seneca e Paolo, la quale sul piano storico è plausibile» (p. 284). Troviamo poi notizie precise sulla persecuzione contro personaggi di rango senatorio della famiglia dei Flavi, come Flavio Clemente e Flavia Domitilla, o contro quella degli Acilii Glabriones e dei Sergi Pauli, che attestano l’esistenza di un cripto-Cristianesimo all’interno delle classi dirigenti romane del II secolo. Basti ricordare le presenze archeologiche dei discendenti di queste famiglie nell’ipogeo dei Flavi nella catacomba di Domitilla e in quello degli Acilii nella catacomba di Priscilla[10]. Accuse e persecuzioni che associano i rappresentanti dello stoicismo ai personaggi incriminati per superstitio illicita.
Una figura molto interessante trattata nel capitolo VIII è quella del filosofo Mara bar Serapion (pp. 198-204), rappresentante dello stoicismo in Siria e forse simpatizzante del Cristianesimo. Di lui la Ramelli traduce dal siriaco la lettera che Mara scrive al figlio Serapione (è la prima traduzione in italiano esistente, che troviamo interamente riprodotta nel libro). Si tratta di un documento straordinariamente edificante per i suoi alti contenuti morali, la cui vicinanza al pensiero cristiano è assolutamente sbalorditiva.
Mara ricorda la figura di Gesù e la associa a quelle di due filosofi greci, anch’essi perseguitati come Cristo: Socrate, messo a morte innocente dagli Ateniesi e Pitagora ucciso dagli abitanti di Samo, mentre Cristo, chiamato “il re saggio dei Giudei” fu ucciso proprio da questi ultimi, che subirono il castigo divino, come gli Ateniesi che morirono di fame e Samo che fu ricoperta dalle acque marine (Diodoro siculo parla di diluvio). Specifica Mara: «I Giudei, dopo essere stati abbattuti e cacciati dal loro regno, sono dispersi in ogni terra. Socrate non è morto, grazie a Platone; e nemmeno Pitagora, in virtù della statua di Era; né il re saggio, grazie alle nuove leggi che egli ha promulgato».
Interessante è poi il richiamo al mito di Ercole, che la Ramelli tratta nell’ultimo capitolo (pp. 221-226). È il protagonista della tragedia attribuita a Seneca – l’Ercole sul monte Eta (Hercules Oetaeus) – l’eroe che si distacca nettamente da tutta la tradizione letteraria precedente (vedi Le Trachinie di Sofocle) per rimodellare la sua figura forse su quella di Cristo, da cui la tragedia sembra riprenderne alcune caratteristiche. Qui Ercole muore e risuscita, Deianira si suicida per il rimorso (Giuda), la madre di Ercole è presente sul luogo della morte del figlio (Maria), l’eroe che crede di essere stato abbandonato dal padre celeste, il terremoto e l’oscurità al momento del trapasso, e tantissime altre stupefacenti assonanze e comparazioni che possono essere fatte con il racconto evangelico.
Va appunto detto che, nel solco della tradizione ellenistico-romana, alcuni miti classici furono oggetto di valorizzazione e potenziamento in chiave cristiana del significato allegorico che richiamavano, e furono illustrati e utilizzati nella letteratura e nell’arte paleocristiane. Tralasciando il vasto simbolismo decorativo e generico (putti, Vittorie alate, danzatrici, erme, ecc.) e quello animale con allusione alla resurrezione (il pavone e la fenice, con chiaro richiamo, nella cultura pagana, all’incorruttibilità della carne e alla resurrezione dalle proprie ceneri), troviamo spesso la figura di Orfeo, il mitico cantore tracio che con la sua musica incantò gli animali e che sarà assimilato alla figura di Cristo[11], e quello per l’appunto di Ercole, nell’episodio di Alcesti.
Ercole scenderà agli inferi e ricondurrà Alcesti tra i viventi. Tale avvenimento in ambito cristiano sarà allusivo alla resurrezione, come nel caso delle pitture della catacomba di Via Latina o Via Dino Compagni che dir si voglia, dove l’episodio di Ercole che riconduce Alcesti dall’Ade è allusivamente associato in un contesto salvifico a quello della resurrezione di Lazzaro (Ercole/Alcesti, Cristo/Lazzaro)[12]. Lo stesso episodio mitologico lo troviamo, ad esempio, in ambito pagano, nel famoso grande mosaico pavimentale dell’età antonina, ancora in situ, nella tomba della mietitura alla Necropoli dell’Isola Sacra[13], o scolpito ad alto rilievo nel sarcofago monumentale di Velletri, sempre del II sec. d.C.[14].
Un altro mito, molto richiamato dalla letteratura e dall’arte pagana, è quello di Ulisse e le Sirene. Ne trattai specificamente in un articolo pubblicato anni fa nella rivista dell’Accademia Bessarione diretta dal compianto prof. Antonio Quacquarelli. Tale racconto sarà ampiamente oggetto di esegesi nella letteratura cristiana, a partire dalla fine del II sec., nell’ambito della rivalutazione della figura di Omero. ‘Poiētōn prĕsbýtatos‘ (il più saggio tra i poeti) lo qualifica Clemente Alessandrino e lo stesso Tertulliano lo rivaluta con grande benevolenza. Troviamo poi in epoca successiva apprezzamenti e lodi nei confronti dell’Odissea in Basilio di Cesarea e Cassiodoro. La figura di Ulisse, come quella di Ercole, diviene, insomma, il fulcro dell’attenzione dell’esegesi patristica. Il vir prudens della tradizione tardo-ellenistica passerà a rappresentare nella concezione cristiana l’homo spiritualis che riesce a sottrarsi alle tentazioni del peccato personificato dalle Sirene[15].
Punto centrale del saggio della Ramelli resta, a mio parere, il problema del senatoconsulto del 35, da cui principia la storia del Cristianesimo nei suoi rapporti con Roma e con l’Impero. Nell’Apologeticum di Tertulliano, che è datato al 197 e in cui l’autore difende i cristiani dalle accuse dei pagani, riversandole a sua volta sui suoi detrattori e persecutori, abbiamo la precisa menzione che entro l’anno 35, Tiberio, venuto a sapere dei fatti relativi all’intera vicenda di Gesù da una relazione scritta inviatagli da Pilato, avrebbe proposto al Senato (che in età giulio-claudia era l’organo competente a decidere sull’ammissione di nuovi culti) il riconoscimento del Cristianesimo. Il rifiuto senatoriale pose, di fatto, la nuova religione al di fuori della legge e il Cristianesimo divenne pertanto religio illicita. I suoi adepti, di conseguenza, avrebbero subìto i rigori della legge, fino alla pena di morte.
Ma Tiberio, il cui interesse per il riconoscimento del Cristianesimo era meramente politico, perché direttamente collegato alla situazione in Palestina, flagellata dai frequenti disordini e dagli atti insurrezionali causati dalla fazione messianica del giudaismo, pose il veto a tale provvedimento, che rimase inapplicato fino al 62. Non per nulla la strategia tiberiana in politica estera, come tramanda Tacito (Annales, libro VI, 32), si fondava sul principio della risoluzione dei conflitti con la diplomazia e l’astuzia, senza ricorrere alla forza delle armi: «consiliis et astu res externas moliri, arma procul habere».
La ragione di Stato era preminente su qualsiasi questione, anche su quelle a carattere religioso e lo dimostra un’altra affermazione tacitiana (Annales, libro I, 73), sempre riguardante Tiberio (tralascio il relativo racconto relativo a uno spergiuro, siamo dunque nella sfera del sacro) che avrebbe affermato che «alle offese rivolte agli dèi ci avrebbero pensato gli dèi medesimi» (deorum iniurias dis curae). La tolleranza veniva meno ogni qualvolta ne risentiva la vita politica e sociale, per i disordini e i tumulti, spesso causati dagli adepti del Giudaismo[16] e delle religioni misteriche d’importazione che avevano trovato largo favore tra gli strati popolari, come ad esempio il culto egizio di Iside, che fu però ostracizzato dall’autorità imperiale fino al principato di Caligola.
A parte il racconto di Flavio Giuseppe (Ant. Iud. XVIII, 65–84) che narra dell’inganno subìto da una nobile romana di nome Paulina da un suo corteggiatore in un tempio isiaco che avrebbe provocato lo sdegno di Tiberio e i conseguenti provvedimenti punitivi nei confronti della casta sacerdotale, è storicamente accertato che l’imperatore attorno all’anno 30 ordinò la distruzione del tempio di Iside e fece gettare la statua di culto nel Tevere (nel 1997 un’apposita grande mostra riguardante tale culto fu organizzata a Milano; in essa, provenienti dal Museo egizio di Monaco di Baviera, furono esposti dei frammenti di statue relative al culto isiaco rinvenute proprio nel Tevere, all’altezza di ponte Sisto). Il culto di Iside ebbe poi uno sviluppo eccezionale e una diffusione capillare sia a Roma che nell’impero. Non solo Iside, i cui misteri furono legittimati da Caligola, ma anche il culto metroaco di Cibele e quello di Attis, riconosciuti e favoriti durante il principato di Claudio, ebbero una grande popolarità e diffusione come quello isiaco. I recenti scavi sul Celio hanno riportato alla luce un monumento di eccezionale importanza – la Basilica Hilariana – che testimonia la presenza di una schola o collegium dei dendrofori (confraternita religiosa dei portatori dell’albero sacro preposta al culto di Attis e associata alla loro attività professionale di addetti alla lavorazione del legno), il cui primo impianto risalirebbe proprio all’età di Claudio[17].
Dunque, la succitata opposizione all’applicazione del senatoconsulto del 35 restò in vigore fino al 62, anno in cui Nerone, allontanatosi dagli insegnamenti stoici di Seneca (oramai caduto in disgrazia) e probabilmente sotto l’influsso della nuova moglie, la giudaizzante Poppea Sabina, dopo il ripudio di Ottavia, revocò il veto di Tiberio. Una svolta che darà inizio alla prima cruenta persecuzione anticristiana della storia di Roma.
Tornando alla testimonianza di Tertulliano, sempre ritenuta dalla maggior parte degli studiosi ‘inverosimile’ e ‘apologetica’, essa è ora, invece, pienamente confermata dal frammento porfiriano scoperto dalla studiosa piacentina: una fonte pagana, quindi, che non può certo essere tacciata di ‘apologismo’.
Si tratta oltremodo di un testo importantissimo perché testimonia la causa e le origini delle persecuzioni contro i Cristiani. Difatti, l’autore pagano, parlando della resurrezione di Cristo, da lui ritenuta fallace, si domanda razionalmente perché mai, dopo la sua resurrezione Cristo sia apparso a gente umile e non a personaggi importanti, e fra questi – attenzione al testo – «soprattutto al Senato e al popolo di Roma, onde essi stupiti dei suoi prodigi, non potessero, in base ad una decisione ufficiale comune del Senato[18], emettere sentenza di morte, sotto accusa di empietà, contro coloro che erano obbedienti a lui?». E ancora: «Se egli, infatti, si fosse rivelato a uomini ragguardevoli, per loro tramite tutti avrebbero creduto e nessun giudice li avrebbe puniti come inventori di racconti assurdi. Perché non piace certo a Dio, ma neppure ad un uomo assennato, che molti siano esposti per colpa sua a pene della peggior specie»[19].
Sembrerebbe, dunque, come sostiene a ragione la Ramelli, un’allusione chiara e difficilmente confutabile alla disposizione emanata dal Senato romano che condannava a morte i Cristiani accusati di empietà.
Altro provvedimento di natura legale attuato contro i Cristiani e che troviamo nel testo in esame è l’Editto di Nazareth (p. 271), di età neroniana, la cui base giuridica doveva fondarsi proprio sul senatoconsulto del 35. Oltre all’accusa già nota di ‘asébeia‘ (empietà, perché adoratori di un uomo) mossa contro i Cristiani, troviamo anche quella di ‘tymbōrýchia‘ (violazione dei sepolcri). Crimine (scelus lo definisce Tertulliano) che normalmente era sanzionato con una multa, ma che con questo editto di Nerone fu invece punito con la morte. Interessante è la correlazione con la vicenda della resurrezione che la Ramelli fa con il romanzo di Charítōn (Caritóne) di Afrodisia (sicuramente a conoscenza della nuova religione, in quanto abitante nella Caria, regione evangelizzata) che narra la vicenda dei due giovani sposi Callirróē (Callìroe) e Chairéas (Chèrea). La fanciulla fu uccisa dal suo sposo (ma si trattò solo di morte apparente) ingannato dagli altri pretendenti della giovane, che credeva di essere stato da lei tradito. Poi c’è il racconto del rapimento dalla tomba in cui era stata deposta, e i suoi trafugatori la conducono a Mileto, etc.
Di grande importanza è il riferimento alla condanna dell’aborto (p. 49) da parte di Calliroe che lo bolla come “atto empio” e che accomuna il pensiero cristiano a quello dello scrittore di Afrodisia attivo tra I e II secolo e allo stoico etrusco-romano già citato, Musonio Rufo, il quale considera l’aborto «un’offesa al sommo dio Zeus, protettore della famiglia». Per i dettagli e gli approfondimenti si rimanda al testo.
Un’ultima osservazione riguarda il crimine di violazione dei sepolcri e il trafugamento del corpo di Cristo, accusa rivolta contro i Cristiani per contestare il racconto della resurrezione.
In antico la violazione dei sepolcri finalizzata alla loro successiva occupazione da parte di chi non aveva i mezzi per l’acquisto di una tomba era una pratica ricorrente. Per motivi di natura religiosa e di superstizione, era assolutamente necessario avere a propria disposizione un luogo di sepoltura dopo la morte (a questo scopo sorsero poi i collegia funeraticia, associazioni che avevano lo scopo di garantire una tomba ai propri soci). Per scongiurare l’occupazione delle tombe, soprattutto nelle necropoli sub divo, i proprietari spesso aggiungevano nei loro epitaffi formule apotropaiche e di maledizione, con minacce di pene pecuniarie da versare al fisco, che, come già accennato in precedenza, erano appositamente previste dalla legge contro i profanatori di sepolcri.
Oltre al celebre epitaffio siracusano di tale Capitolia, che afferma di essere morta da cristiana e chiude il testo con un ‘Ánagnos anachōrei‘ (leggi e vattene, negli epitaffi latini troviamo il suo corrispondente ‘lege et recede‘), è paradigmatica l’iscrizione in lingua greca proveniente dall’antica Geropoli e rinvenuta alla fine dell’800, nei pressi dell’odierno centro di Kotch-Hissar in Turchia. Si tratta del celeberrimo cippo di Abercio, databile al 170-200 circa (de Rossi, il padre dell’archeologia cristiana, lo definì «regina delle iscrizioni cristiane e la più antica sicuramente databile»), che fu poi donato al pontefice Leone XIII (ora è nel Lapidario Cristiano ex Lateranense dei Musei Vaticani). Non entro minimamente nel merito del testo e del linguaggio criptico usato per renderlo incomprensibile ai profani, ma che è stato ora universalmente riconosciuto come cristiano, se non per ricordare la formula finale in cui Abercio invita i fedeli a pregare per lui, ammonendo subito dopo: «Nessuno poi nella mia tomba porrà un altro. Se no, pagherà all’erario dei Romani duemila aurei e all’ottima patria Hieropolis mille»[20].
Dal capitolo VI (pp. 62-63) ho tratto l’ultima spigolatura riguardante un’altra accusa rivolta ai Cristiani, quella di onolatria, vale a dire l’adorazione di un uomo-asino, di cui furono bersaglio anche i Giudei. Contro questi ultimi abbiamo le testimonianze: 1) di Tacito, Historiae, libro V, cap. 3, dove viene affermato che l’aiuto divino a Mosè nel deserto si sarebbe configurato tramite un grex asinorum agrestium, un gregge di asini selvatici che avrebbe condotto gli ebrei assetati che seguirono gli animali ad una vena d’acqua; 2) di Flavio Giuseppe, Contra Apionem, libro II, cap. 5, dove riporta l’addebito pronunciato contro gli ebrei dal grammatico alessandrino Apione, che li accusava di aver introdotto e collocato nel loro tempio di Gerusalemme una testa d’asino, che adoravano e ritenevano degna di tanti onori. Per l’accusa di onolatria ai cristiani abbiamo due testimonianze importanti: una letteraria, l’altra archeologica. La prima ci viene dal più volte citato Apologeticum di Tertulliano (16, 12), che descrive una statua togata e ungulata di un uomo con le orecchie d’asino e un libro in mano, che recava l’iscrizione ‘il dio dei cristiani è di razza asinina’ (Deus Christianorum onochoetes. Is erat auribus asininis, altero pede ungulatus, librum gestans, et togatus). Quella archeologica è data dal famoso graffito del Palatino, un vero unicum per la sua originalità iconografica. Fu scoperto alla metà dell’Ottocento dal gesuita Raffaele Garrucci all’interno del Paedagogium, la scuola dei paggi imperiali, ubicata per l’appunto presso il palazzo imperiale del Palatino. Il graffito rappresenta un uomo con la testa d’asino appeso a una croce a forma di tau (la croce commissa). Di fronte a lui si vede un personaggio stante in atto di venerazione. La scena è corredata da un’iscrizione, anch’essa graffita, che recita: ‘Alexamenós sébete (per sébetai) theón‘ (Alessameno adora dio).
A conclusione segnalo un paio di criticità che riguardano il libro, ma che ovviamente non ne sminuiscono minimamente il contenuto e l’alto valore storico-scientifico. La prima riguarda un elemento – diciamo – di natura “strutturale”: la mancanza di un pratico indice analitico che permetterebbe una rapida ricerca di tutti i temi trattati (personaggi, luoghi, avvenimenti, etc.). La seconda è esclusivamente di natura tipografica e si riferisce al mancato controllo da parte dello stampatore dell’utilizzo del corretto tipo di carattere per la trascrizione dei termini greci, che risultano così incomprensibili perché automaticamente traslitterati in un sistema alfabetico diverso dall’originale.
Giuseppe Biamonte
NOTE
[1] I. Ramelli, Cultura e religione etrusca nel mondo romano, Torino, Edizioni dell’Orso, 2007.
[2] Ead., Cristiani e vita politica: Il cripto-cristianesimo nelle classi dirigenti romane nel II secolo, in “Aevum”, 77,1, 2003, pp. 35-51.
[3] Ead., L’epitafio di Abercio: Uno status quaestionis ed alcune osservazioni, in “Aevum”, 74, 1, 2000, pp. 191-205.
[4] Ead., Petronio e i Cristiani: Allusioni al Vangelo di Marco nel Satyricon?, in “Aevum”, 70, 1, 1996, pp. 75-80.
[5] M. Sordi – I. Ramelli, Il senatoconsulto del 35 contro i Cristiani in un frammento porfiriano, in “Aevum”, 78, 1, 2004, pp. 59-67.
[6] I. Ramelli, Protector Christianorum (Tert. Apol. V 4): Il “Miracolo della pioggia” e la lettera di Marco Aurelio al Senato, in “Aevum”, 76, 1, 2002, pp. 101-112.
[7] M. Sordi, Il Cristianesimo e Roma, Rocca San Casciano, Cappelli Editore, 1965, p. 309.
[8] Si veda l’eccellente articolo (con intervista ad Ilaria Ramelli) dal titolo un po’ ad effetto La donna che sa tutte le lingue del mondo, pubblicato su “Il Giornale” del 10 novembre 2002 (www.aristofane.it/pdf/Ilaria_Ramelli.pdf).
[9] F. Cardini, La bottega del professore, Padova, Libreria universitaria.it edizioni, p. 99.
[10] L. De Santis – G. Biamonte, Le catacombe di Roma, Roma, Newton Compton Editori, 2011, pp. 62-72; 184-191.
[11] Eusebio di Cesarea, nelle Laudes Constantini, 14 (=PG 20, 1410-1412), afferma in proposito: «Se Orfeo con il suono della lira ammansì le fiere […] il Verbo di Dio fece di più: ammansì i costumi dei barbari e dei pagani».
[12] De Santis – Biamonte, cit., pp. 281-289.
[13] I. Baldassarre – I. Bragantini – C. Morselli – F. Taglietti, Necropoli di Porto Isola Sacra, Roma, I.P.Z.S., 1996, pp. 154-161.
[14] F. Coarelli, Lazio. Guide archeologiche Laterza, Roma-Bari, Laterza, 1982, p. 254.
[15] G. Biamonte, Il mito di Ulisse e le Sirene fra tradizione pagana e simbolica cristiana, in “Bessarione”, 11, Roma, Herder, 1994, pp. 53-80.
[16] Secondo la testimonianza di Svetonio (Vita di Claudio 25, 4), nel 49 Claudio espulse i Giudei da Roma per i tumulti da loro compiuti e capitanati da un certo Chrestus (Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantes). Taluni studiosi hanno però ritenuto che il provvedimento imperiale fosse diretto contro i Cristiani e non contro i Giudei. Altri sono invece contrari a tale tesi. Tra questi ultimi anche la Sordi, la cui posizione è chiaramente riassunta e ben documentata in M. Sordi, I Cristiani e l’Impero romano, Milano, Jaca Book, 2004, pp. 39-44.
[17] Cfr. P. Palazzo – C. Pavolini (a cura di), Gli dèi propizi. La Basilica Hilariana nel contesto dello scavo dell’Ospedale Militare Celio (1987-2000), Roma, Edizioni Quasar, 2013.
[18] ‘Dógmati coinói‘ è l’espressione che appare nel frammento. Come precisa la Ramelli il termine ‘dógma‘ «era espressione tecnica in greco per indicare il senatoconsulto romano».
[19] Sono le stesse critiche, riguardo alla resurrezione di Cristo, che si ritrovano nell’ Alēthēs lógos (Discorso Vero) del medioplatonico Celso, databile agli ultimi anni del regno di Marco Aurelio, il quale si avvale per le sue accuse anticristiane della personificazione del “Giudeo” – probabilmente più una figura retorica e fittizia utilizzata all’uopo che un personaggio reale appartenuto al giudaismo ellenistico. Riporta, infatti, Origene, nella confutazione di Celso, che il filosofo pagano affermava: «Se peraltro Gesù desiderava rivelare realmente una potenza divina, avrebbe dovuto farsi vedere da coloro che lo avevano oltraggiato e da colui che lo aveva condannato, in breve da tutti». Cfr. Origene, Contro Celso, II, 63, a cura di Pietro Ressa, Brescia, Morcelliana, 2000, p. 213.
[20] Sull’iscrizione di Abercio, oltre all’articolo a nota 3 della stessa Ramelli, cfr. in particolare Dalla terra alle genti. La diffusione del cristianesimo nei primi secoli, (a cura di A. Donati), Milano, Electa, 1996, pp. 182-184, nn. 24-25; D. Mazzoleni, L’epigrafia cristiana al tempo dei Severi, in Gli imperatori Severi. Storia, archeologia, religione, (a cura di E. Dal Covolo e G. Rinaldi), Roma 1999, pp. 273 ss.
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